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Quando i Mapuches sconfissero i crucchi al Mondiale

In un cantiere della Patagonia, a contendere il titolo agli italiani, detentori della Coppa dal ’38, elettrotecnici tedeschi fedeli al Reich, operai inglesi, preti polacchi, intellettuali francesi, cercatori d’oro argentini, indios senza patria

di Osvaldo Soriano

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L’immaginario mondiale del 1942 così come lo immaginò Osvaldo Soriano, grandissimo giornalista e scrittore argentino, scomparso nel ’97 a soli 53 anni, nel racconto “Il figlio di Butch Cassidy” inserito nell’antologia Pensare con i piedi.

Il mondiale del 1942 non figura in nessun libro di storia. Si giocò nella Patagonia argentina senza sponsor né giornalisti, e nella finale accaddero cose strane, come il fatto che si giocò un giorno e una notte senza riposo, che le porte e il pallone sparirono e che il temerario figlio di Butch Cassidy tolse all’Italia tutti i suoi titoli.

Mio zio Casimiro, che non aveva mai visto da vicino un pallone da calcio, nella finale fece il guardalinee e alcuni anni dopo scrisse delle memorie fantastiche, piene di errori storici e di follie ormai irrimediabili in mancanza di testimoni più credibili.

La guerra in Europa aveva interrotto i mondiali. Gli ultimi due, nel 1934 e nel 1938, li aveva vinti l’Italia e gli operai piemontesi ed emiliani che costruivano la diga di Barda del Medio in Argentina e le strade di Villarica in Cile, si sentivano campioni per sempre. Tra gli operai che lavoravano c’erano anche mapuches noti per le loro arti illusionistiche e per le loro magie, e soprattutto europei scappati dalla guerra. Spagnoli che monopolizzavano i negozi di alimentari, altri italiani di Genova, della Calabria e della Sicilia, e polacchi, francesi, qualche inglese che prolungava le strade ferrate di Sua Maestà, pochi guaranìes del Paraguay, argentini che avanzavano verso la lontana Terra del Fuoco. Tutti si trovavano lì perché il telegrafo non c’era ancora arrivato e si sentivano al sicuro dal mondo tremendo in cui erano nati.

 

Verso aprile, quando il caldo diminuì e il vento del deserto si placò, arrivarono gli elettrotecnici del Terzo Reich che installavano la prima linea telefonica dal Pacifico all’Atlantico. Portavano con loro un’estremità del cavo che inaugurava l’era delle comunicazioni e il primo pallone con valvola automatica, che dicevano di aver inventato ad Amburgo. Dopo averlo mostrato nel recinto del cantiere per suscitare l’ammirazione di tutti, lanciarono una sfida, nel caso ci fosse qualcuno disposto a giocare contro di loro una partita internazionale. Un ingegnere, che si chiamava Celedonio Sosa e veniva da Balvanera, accettò la sfida a nome della nazione argentina e mise insieme una squadra di vagabondi e ubriaconi che tornavano delusi dalle depressioni della cordillera delle Ande, dov’erano andati a cercare l’oro.

 

Il suo coraggio si rivelò catastrofico per gli argentini, che persero 6 a 1 con un pessimo arbitraggio di William Brett Cassidy, che diceva di essere figlio naturale del cowboy Butch Cassidy, il quale prima di finire crivellato di spari in Bolivia era vissuto molti anni nelle fattorie della Patagonia insieme a Sundance Kid e a Edna, amante di tutt’e due.

 

Quando si accorsero della diversità di paesi e razze rappresentati in quell’angolo della Terra, i tedeschi lanciarono l’idea di un campionato mondiale che avrebbe dovuto immortalare con la prima telefonata il loro passaggio portatore di civiltà in quei confini del pianeta. Il primo problema per gli organizzatori fu che gli italiani antifascisti si rifiutavano di mettere in palio la loro condizione di campioni perché ciò avrebbe comportato il riconoscimento dei titoli vinti dai professionisti del regime di Mussolini.

 

Alcuni irresponsabili, conquistati dalla curiosità di giocare con un pallone perfettamente rotondo e senza i lacci, si lasciavano schiacciare dai tedeschi al calar del sole mentre la linea telefonica avanzava nella cordillera verso il cantiere della diga: una squadra di negozianti spagnoli e di intellettuali francesi fu travolta 7 a 0 e una di preti polacchi e di sbandati guaranìes perdette 5 a 0 in un campo improvvisato sulla sponda del fiume Limay.

 

Nessuno ricordava bene le regole del gioco, né quanto tempo si dovesse giocare, né le dimensioni del terreno, cosicché le sole cose proibite erano toccare il pallone con le mani e colpire alla testa i giocatori caduti. Chiunque avesse avuto abbastanza discernimento per giudicare queste due infrazioni, poteva essere l’arbitro, e così mio zio e il figlio di Butch Cassidy divennero famosi e rispettabili finché arrivò il telefono.

 

Ci fu un momento in cui la posizione di principio degli italiani si fece insostenibile. Come potevano continuare a proclamarsi campioni di una Coppa che non riconoscevano, mentre i tedeschi infliggevano una goleada a tutti quelli che si trovavano di fronte? Potevano continuare a sopportare gli sfottò e le battute degli ospiti che li accusavano di non giocare per paura dell’umiliazione?

 

A maggio, all’inizio delle prime pioggerelle, il caposquadra calabrese Giorgio Casciolo si accorse che con la sabbia bagnata il pallone cominciava a rimbalzare in tutte le direzioni e che gli inviati del Fùhrer, i quali ormai provavano in segreto il telefono ed esageravano con la birra, non riuscivano più a controllarlo alla perfezione. In un’altra partita contro i guaranìes, dopo due ore di gioco senza interruzione, il risultato fu solo di 5 a 2. In un’altra, gli inglesi che mettevano giù i binari della ferrovia, perdevano per 5 a 4 quando i tedeschi, scesa la sera, sostennero che bisognava metter via il pallone per evitare che si perdesse tra le erbacce. Al fine mese i pescatori del Limay, quasi tutti cileni, perdettero 4 a 2 perché William Brett Cassidy aveva concesso due rigori a favore dei tedeschi per dei falli di mano commessi molto lontano dalla porta.

 

In una notte di baldoria nel postribolo di Zapala, mentre un ingegnere di Baden Baden cercava di sintonizzarsi con una radio sulle notizie dal fronte russo, un anarchico genovese che si chiamava Mancini e a cui avevano rubato i pantaloni cominciò a inneggiare al proletariato di Barda del Medio e a urlare che né i tedeschi né i russi erano invincibili. Lì non c’erano russi che potessero sentirsi chiamati in causa, ma l’ingegnere tedesco sobbalzò, tese il braccio e accettò la sfida. Il caposquadra Casciolo, in una stanza vicina, sentì la discussione e temette che la Coppa del 1938 cominciasse ad allontanarsi per sempre dall’Italia.

 

All’alba, mentre rientravano a Barda del Medio su una Ford, gli italiani decisero di giocarsi il titolo e di difenderlo con tutto l’onore che fosse possibile a quell’epoca e in quel posto. Solo cinque o sei di loro avevano giocato qualche volta a pallone, ma uno, l’anarchico Mancini, aveva passato l’infanzia in un collegio di preti dove gli avevano insegnato a correre con una palla legata ai piedi.

 

Il giorno dopo la notizia girò per tutte le impalcature della gigantesca opera: i campioni del mondo accettavano di mettere in palio la Coppa. I mapuches non sapevano di che cosa si trattasse, ma credevano che la Coppa possedesse i segreti dei bianchi che li avevano decimati nelle guerre di conquista. Agli inglesi non andava giù che i loro nemici tedeschi potessero conquistarsi la gloria di quel torneo fugace. Gli argentini aspettavano che il governo li portasse via da quell’inferno di caldo e di sabbia e intanto mettevano a punto un sistema difensivo per impedire un’altra goleada tedesca. I guaranìes avevano fatto la guerra per il petrolio con la Bolivia ed erano abituati al deserto, anche se non avevano più di tre o quattro uomini che conoscessero un pallone. Formarono delle squadre anche i preti e gli operai polacchi, gli intellettuali francesi e i negozianti spagnoli. I francesi non erano abbastanza per arrivare a undici e chiesero l’autorizzazione di aggiungere tre pescatori cileni.

 

I tedeschi insistettero perché tutto si svolgesse secondo le regole che credevano di ricordare: bisognava sorteggiare tre gruppi e si doveva giocare nei posti dov’era arrivato il telefono per chiamare Berlino e dare la notizia. William Brett Cassidy insistette perché gli arbitri fossero autorizzati a portare un revolver per far rispettare la loro autorità. Poiché molti giocatori entravano in campo ubriachi e a volte armati di coltello, l’idea venne approvata.

 

Furono liberati a colpi di machete tre spiazzi lunghi cento metri e le porte, siccome nessuno ricordava le misure, le fecero di dieci metri per due di altezza. Non c’erano reti per trattenere il pallone, ma Cassidy e mio zio Casimiro, che avrebbero arbitrato, si mostrarono pronti a misurare a colpo d’occhio se il pallone sarebbe passato dentro o fuori il rettangolo.

 

Il sorteggio delle sedi e delle partite fu fatto con il sistema della pagliuzza più corta. L’inaugurazione, a Barda del Medio, toccò all’Italia campione e all’agguerrita squadra dei guaranìes del Paraguay. Sull’altra sponda del fiume, a Villa Centenario, giocarono tedeschi, francesi e argentini, e sulla strada di terra, vicino al postribolo, si affrontarono spagnoli, inglesi e gli indios mapuches.

 

In tutte le partite ci furono incidenti all’arma bianca e i lavori della diga dovettero essere sospesi a causa dei gravi rigurgiti di nazionalismo provocati dal campionato. Nell’inaugurazione, l’Italia vinse 4 a 1 sui guaranìes. Negli altri campi risultarono vincitori i tedeschi sui francesi, mentre i mapuches tolsero di mezzo inglesi e spagnoli con cinque o sei gol di distacco.

 

I primi due feriti furono guaranìes che non accettarono le decisioni di Cassidy. L’arbitro dovette distribuire colpi di calcio di pistola per far eseguire un rigore a favore dell’Italia. Sull’altra sponda del fiume mio zio Casimiro, nella seconda partita del girone, dovette sparare contro un attaccante mapuche che si era infilato il pallone sotto la camicia e aveva cominciato a correre come un pazzo verso la porta inglese. I mapuches ebbero due o tre infortunati, ma vinsero il girone perché gli inglesi si ostinarono in un fair play degno dei campi di Cambridge.

 

La bandiera del Terzo Reich sventolò più alta delle altre per tutto il campionato sui cantieri della diga, ma durante la notte qualcuno le sparava fucilate. William Brett Cassidy permise che i tedeschi eliminassero l’Argentina grazie all’espulsione dei suoi due migliori difensori. È vero che il portiere, uno di Còrdoba, si difendeva a sassate quando i tedeschi si avvicinavano alla porta, ma quella era una tecnica adottata da tutti i difensori quando si sentivano in pericolo. Prima di ogni partita i tifosi accumulavano pile di calcinacci dietro a ciascuna porta e alla fine degli scontri, evacuati i feriti, si raccoglievano i sassi che restavano sul campo.

 

Le memorie scritte da mio zio risultano lacunose e forse confondono gli eventi. Raccontano che vi furono tre finalisti: Germania, Italia e i mapuches senza patria. Nella semifinale si verificarono alcune irregolarità che Cassidy non fu in grado di controllare. I tedeschi si presentarono con degli elmi per proteggersi la testa e alcuni avevano degli spilli pressoché invisibili da usare nelle mischie. Gli italiani bruciarono uno stemma fascista, intonarono Verdi ed entrarono in campo nascondendo manciate di peperoncino da tirare negli occhi degli avversari.

 

Cassidy volle dare risalto all’evento e tirò a sorte per scegliere il campo con un dollaro d’oro, ma appena la moneta cadde a terra qualcuno la rubò e così si verificò il primo scompiglio. Il capitano tedesco accusò un cuoco italiano che di sera leggeva Lenin chiuso in un gabinetto del cantiere di essere ladro e comunista. Il cuoco fu espulso dal campo per ribellione e letture contagiose. Prima di dare inizio alla partita, Cassidy tenne un discorso piuttosto duro sul pericolo di mescolare il calcio alla politica e poi si ritirò a osservare la partita su un monticello di sabbia, accanto al campo. Poiché non aveva il fischietto e le cose si annunciavano difficili, scendeva dalla collinetta con il revolver in pugno solo per dividere i giocatori che si prendevano a botte. Cassidy sparava in aria e sebbene alcuni spettatori nascosti tra l’erba gli rispondessero con salve di fucile, la testimonianza di mio zio assicura che affrontò le tre ore di gioco con un coraggio degno della memoria del padre.

 

Cassidy fece durare la partita così a lungo perché gli italiani resistevano con coraggio e con molta polvere di peperoncino all’attacco tedesco. Nei contropiede l’anarchico Mancini sgusciava come un’anguilla tra i difensori troppo avanzati. Ci furono momenti in cui l’Italia, che giocava con un uomo in meno, si trovò in vantaggio per 2 a 1 e per 3 a 2, ma al calar del sole qualcuno restituì a Cassidy il suo dollaro d’oro dentro a una tabacchiera in cui c’erano almeno altre venti monete. Allora il figlio di Butch Cassidy decise di scendere in campo e di mettere le cose a posto. Su un corner, Mancini saltò per prendere il pallone di testa, ma un difensore tedesco lo punse nel collo con una spilla e quando l’italiano andò a protestare Cassidy gli appoggiò il revolver contro la testa e lo espulse senza tanti complimenti. Poi, quando scoprì che gli italiani usavano peperoncino per tenere lontani gli attaccanti rivali, fermò il gioco e diede tre rigori a favore dei tedeschi.

 

Il caposquadra Casciolo, furibondo di fronte a tale parzialità, andò a mettersi tra il portiere e l’uomo che avrebbe tirato i rigori, ma Cassidy ricaricò il revolver e lo ferì a un piede. Un ingegnere prussiano s’infilò gli occhiali per tirare i rigori (Cassidy aveva contato solo nove passi di distanza) e segnò due gol. Subito dopo il figlio di Butch Cassidy decretò la fine dell’incontro e così l’Italia perdette la Coppa che aveva vinto nel 1934 e nel 1938.

 

I tedeschi andarono a festeggiare al postribolo e non immaginavano neppure da lontano che i mapuches scesi dalle Ande potessero batterli nella finale, come successe tre giorni dopo, in una domenica grigia che la storia non ricorda. Quel giorno il telefono cominciò a funzionare e alle tre del pomeriggio Berlino rispose alla prima chiamata dalla Patagonia. Da tutta la regione andarono al campo per vedere la partita e il telefono nero nuovo fiammante portato dai tedeschi. Un reggimento di stanza alla frontiera con il Cile mandò i soldati migliori per suonare gli inni nazionali e mantenere l’ordine, ma i mapuches non avevano un paese e tantomeno una musica scritta, perciò eseguirono una danza che invocava l’aiuto dei loro dèi.

 

Mio zio, che fece il guardalinee, annota nelle sue memorie che poco dopo l’inizio della partita sulle colline apparvero delle donne a seno nudo che ballavano e subito cominciò a piovere e a grandinare. Tra il temporale e la grandine Cassidy pensò di sospendere l’incontro, ma i tedeschi avevano già annunciato la vittoria per telefono e si rifiutarono di rinviare l’evento. Ben presto il campo si trasformò in un pantano e i giocatori si infangarono fino a diventare irriconoscibili. Poi, senza che nessuno se ne accorgesse, le porte scomparvero e sebbene si giocasse senza sosta fino all’ora di cena non si sapeva più dove infilare i gol.

 

A mezzanotte, mentre la pioggia s’intensificava, Cassidy fermò il gioco e si consultò con mio zio per decidere sul da farsi. I tedeschi dissero di aver visto delle donne che si portavano via i pali e subito l’arbitro assegnò sei rigori per punire i mapuches. Nessuno però riuscì a trovare le porte in cui tirarli. Una squadra dell’esercito andò a cercarle, ma non se ne seppe più niente. Il gioco dovette proseguire nel buio più totale perché Berlino esigeva il risultato, ma non c’era più nemmeno il pallone e con il far del giorno tutti correvano dietro a un’illusione che saltava di qua e di là, a seconda di come volevano gli uni o gli altri.

 

Mentre il sole si levava, il telefono suonò nel deserto e tutti quanti si fermarono ad ascoltare. L’ingegnere capo chiese a Cassidy di sospendere il gioco per qualche istante, ma fu inutile: i mapuches continuavano a correre, a saltare e a gettarsi in terra come se ancora ci fosse un pallone. I tedeschi, curiosi o preoccupati, sicuramente esausti, andarono a rispondere e sentirono la voce del loro Fùhrer che iniziava un discorso in qualche luogo della patria lontana. Allora più nessuno si mosse e il sussurrio disturbato del telefono corse per tutto il terreno in quel primo mondiale dell’era delle comunicazioni.

 

In quel momento di quiete una delle porte apparve all’improvviso sull’alto di una collina. Tutti potevano vederla, e le donne ripresero la loro danza senza musica. Una di loro, la più grassa e colorata a festa, andò incontro al pallone che cadeva da molto in alto, da chissà dove, e con un tocco lieve di testa lo lasciò adagiare davanti ai pali, affinché un ballerino scalzo che rideva a crepapelle lo mettesse in gol di destro. William Brett Cassidy annullò il tiro sparando, ma, nelle sue memorie allucinate, mio zio considera valido quel gol. Peccato che abbia dimenticato di riferire altri particolari e il nome di quell’allegro goleador dei mapuches.

 

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