Assoluzione in appello per quasi tutti gli imputati il processo contro la Commissione “Grandi Rischi” incapace di fronte al sisma del 2009. Partecipata la manifestazione in piazza
dall’Abruzzo, Alessio Di Florio
Oltre 500 persone si sono ritrovate in piazza per esprimere l’indignazione e la rabbia di una città, L’Aquila, nei confronti della sentenza di secondo grado nel processo contro la “Commissione Grandi Rischi”. Tutti assolti tranne l’allora vicecapo della Protezione Civile Bernardo De Bernardinis (condanna a due anni, pena sospesa). Un processo che è stato al centro dei riflettori dopo la sentenza in primo grado, quando una incredibile campagna mediatica, che non soltanto ignorava quanto successo a L’Aquila ma di fatto lo negava e stravolgeva, lo trasformò in un processo contro la scienza: l’accusa era di aver eccessivamente rassicurato la cittadinanza, affermando che non sarebbe avvenuta una fortissima scossa, e non di non aver saputo predire il terremoto come affermarono i protagonisti di tale campagna. Ma tant’è, questo comportamento su L’Aquila avviene dal giorno stesso del terremoto. In questi oltre cinque anni si sono visti all’opera fotostar e persone che dovrebbero rappresentare il popolo italiano (e quindi anche le aquilane e gli aquilani) insultare, dileggiare, ergersi censori e giudici senza aver mai vissuto il dramma abruzzese. Cinque anni dopo, parafrasando Guccini, L’Aquila e l’Abruzzo attendono ancora il soffio di liberazione della ricostruzione pesante ma nel resto del Belpaese si è convinti che tutto già sia stato ricostruito e che L’Aquila sia rinata, che addirittura la sua cittadinanza è stata fortunata perché ha subito avuto nuove case e lì dove si attende ancora è solo colpa degli aquilani che non “vogliono rimboccarsi le maniche” e che pensano solo a chiedere soldi allo Stato. Non è così! E mentre le risposte dello Stato sono apparse parziali, inefficaci e insufficienti la corruzione, le mafie, sciacalli vari sono sempre stati in azione. Neanche il funerale delle vittime ha avuto pace.
“Vergogna”. E’ l’urlo che più forte si è sentito in queste settimane nelle aule del Palazzo di Giustizia aquilano. Un grido pronunciato dai familiari di alcune delle vittime del sisma del 6 Aprile 2009 che penetra nelle coscienze e fa ancora oggi vibrare le mura del tribunale. Si è concluso il processo d’appello contro la Commissione “Grandi Rischi”. Immediatamente dopo la sentenza nella principale piazza della città è comparso un enorme striscione con la scritta “Grandi Rischi: molte storie ce lo hanno già insegnato… È inutile fare un processo quando è contro lo Stato. Vergogna!”. Ed è questo il sentimento prevalente nei comitati cittadini e nelle associazioni dei familiari delle vittime. Scrive il comitato 3e32 in un comunicato “lo Stato si autoassolve e se la ride. Da anni. La sentenza rappresenta l’ennesimo schiaffo dello Stato alla popolazione aquilana. Una commissione di esperti che non avrebbe, naturalmente, dovuto prevedere il terremoto – come è stato strumentalmente scritto dai media – ma che ha avuto la colpa di aver rassicurato i cittadini. Una commissione che, come è stato evidenziato anche dalle intercettazioni telefoniche, era stata inviata all’Aquila solo per compiere un’operazione mediatica, trasformando inoltre le legittime preoccupazioni della popolazione in un problema di ordine pubblico da reprimere”. Durissima Annalucia Bonanni, in prima fila nella mobilitazione cittadina di questi anni, secondo cui non esiste la giustizia in un Paese in cui chi ha denunciato quanto accaduto a L’Aquila è sotto processo mentre chi “non ha fatto il suo dovere se ne sta tranquillo”.
Su Facebook tantissimi i profili che hanno cambiato la “copertina” listandola a lutto con una grande scritta “Il fatto non sussiste” mentre monta sempre più la mobilitazione. Tantissimi avevano già partecipato, prima della manifestazione di piazza a cui si faceva riferimento all’inizio dell’articolo, al primo sit in che è poi sfociato in un corteo per la città alla cui testa c’era lo striscione “Il Potere ordina, la scienza obbedisce, la giustizia assolve” del comitato 3e32. “Senza la verità, senza la giustizia questa città non potrà mai seppellire i propri morti e avviarsi in un cammino di ricostruzione” l’urlo indignato di Antonietta Centofanti che con una forza ammirevole da cinque anni chiede giustizia per il nipote Davide, morto nella Casa dello Studente.
Il compianto Vittorio Arrigoni concludeva le sue testimonianze da Gaza scrivendo “restiamo umani”. Da una città che ha vissuto che l’Abruzzo Social Forum ha denunciato aver vissuto nelle prime settimane post sisma una militarizzazione paragonabile (su questa militarizzazione, che vide militari e carabinieri in tenuta anti sommossa in città , il giornalista Giuseppe Caporale ha scritto il libro “L’Aquila non è Kabul”), quest’insegnamento rimane vivo. Lo è nella forza dei familiari delle vittime, in chi dopo cinque anni non si è ancora arreso e non vuol farlo. Lo è nella dignità e nella forza di Antonietta o nella straordinaria umanità della sorella di Davide, Lilli, in un’intervista televisiva proprio sul processo in corso nella quale ha ripetuto la domanda che da quella maledetta notte aleggia senza risposte “perché sono morti?”. In un’intervista al mensile Casablanca Lilli ha ricordato che quella notte crollò anche la struttura della facoltà di Ingegneria, e quindi se la scossa fosse arrivata di giorno Davide sarebbe morto durante una lezione). E negli anni si è proposto, in più di un’occasione, di demolire quel che resta della casa dello Studente e realizzare in quell’area altro, tra cui addirittura un parcheggio nel 2011. Scrisse in quell’occasione Lilli Centofanti parole vibranti e commoventi che ancora oggi appaiono attuali e tra le più umane e aderenti all’infinito post terremoto aquilano mai lette. “C’è stato un tempo in cui la nebbia non ci permetteva neanche di indovinare la nostra stessa fisionomia. Poi è arrivata la pioggia: non abbiamo avuto scelta, l’acqua è penetrata ovunque e ci siam bagnati. E tuttora i nostri vestiti sono umidi, scoloriti e strappati… E noi con loro. […] noi vorremmo poterci asciugare dopo tanto tempo, perché quei vestiti non riacquisteranno mai il loro colore, perché questo dolore è ormai un reumatismo che ci perfora le ossa e non c’è alcuna possibilità di guarigione […]Vorremmo che a L’Aquila un giorno si riaccendessero le luci nelle case, tornassero le voci a sconfiggere il silenzio ed i boccali a brillare sotto i lampioni, che si facesse a palle di neve nelle piazze e gli orologi dei campanili tornassero a scandire ore di vita e non di morte”.