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Chi fermerà l’Isis

L’intesa Usa-Turchia non promette progressi. Se l’Isis in sei mesi ha perso il 9,4% del territorio è solo grazie ai combattenti kurdi di Siria e Iraq

di Félix Flores

La frontiera contesa tra Turchia e Siria. Fonte: Institute for the study of war
La frontiera contesa tra Turchia e Siria. Fonte: Institute for the study of war

In assenza di una strategia globale e potente per distruggere o almeno minare lo Stato islamico, l’iniziativa spetta ancora alle armi e il futuro resta condizionato ai risultati sul campo di battaglia, in particolare il campo siriano. Ora, per la prima volta, la collaborazione della Turchia con la coalizione antiyihadista guidata dagli Stati Uniti dovrebbe aprire una opportunità, ma Washington deve dimostrare di avere piani concreti, la Turchia deve manifestare quali sono i suoi, e il risultato continua ad essere imprevedibile.

E ‘anche possibile che questa intesa, che ha come scenario la provincia di Aleppo, nel nord della Siria, non abbia un grande impatto. Nel frattempo il regime siriano – per alcuni la nemesi dell’Isis in Siria -, non è affatto disturbato dagli attori internazionali e si dedica ai suoi bombardamenti terroristici contro la popolazione civile, l’ultimo pochi giorni fa a Duma.

La buona notizia è che nella prima metà del 2015 lo Stato islamico (Is nell’acronimo inglese, ndt) ha perso il 9,4% del territorio controllato, secondo una recente valutazione dell’osservatorio britannico Ihs Jane’s, e questo grazie alla lotta delle milizie kurde nel nord della Siria. Anche in Iraq, seppur meno, i kurdi hanno conquistato terreno, per un totale di 9,8% del territorio, naturalmente con l’aiuto dei bombardamenti aerei della coalizione internazionale. Le varie milizie siriane hanno conquistato l’11,1% del territorio mentre il regime di Damasco ne ha perso il 16%.

Lo Stato islamico viene respinto, sia da nord che da sud, dalle milizie siriane, molti delle quali raggruppate in un centro operativo chiamato Esercito della vittoria e che gli Usa preferiscono definire come “relativamente moderate” mentre, in realtà, si tratta in maggioranza di islamisti radicali e yihadisti. Ma l’Is è flessibile e opportunista, e ha saputo ricollocare le sue forze verso obiettivi strategici dove potrebbe avere più successo.

In Iraq, l’esercito e le milizie sciite appoggiate dall’Iran (compreso Hezbollah libanese che in Siria combatte al fianco di Bashar al Assad), hanno recuperato solo il 4,5% del territorio.

La settimana scorsa il ministro della difesa iracheno Khaled al-Obeidi, ha annunciato la seconda fase della riconquista di Ramadi, città da cui si era vergognosamente ritirato a giugno, ed ha insistito che l’Is “ha perso il formidabile potere militare che aveva”. Tuttavia l’esercito iracheno non è riuscito a riprendersi la città di Baiji e la sua raffineria, la più grande del paese, e non si notano progressi contro l’ibrida guerra portata avanti dai yihadisti, capaci di commettere attentati ogni volta sempre più mortali a Baghdad.

Così come riportato dagli analisti, per frenare lo Stato islamico è imprescindibile chiudere la frontiera tra Turchia e Siria, grande passaggio di rifornimenti per l’Isis. Questo lavoro non lo sta facendo il governo turno ma i combattenti kurdi.

Per quattro anni la Turchia, membro della Nato, ha tenuto irritantemente porose le frontiere con la Siria permettendo all’Isis il passaggio di combattenti, armi e materiali diversi. Dall’altra parte l’Is ha estratto petrolio di contrabbando per finanziarsi. Alla Turchia quest’occhio di riguardo doveva presumibilmente servire al suo doppio obiettivo: rovesciare Bashar al Assad e contenere l’insorgenza kurda. Ma in quest’ultimo caso non è stato così.

La Turchia si è unita alla lotta antiyihadista solo quando si resa conto che i kurdi potevano completare il controllo della frontiera siriana. Ha ceduto agli Stati uniti le basi aeree da cui decollano i cacci bombardieri, promettendo anche di fare la sua parte in cambio di stabilire una zona cuscinetto sul lato siriano della frontiera in cui ancora è posizionato l’Is.

Il problema è che l’accordo tra Ankara e Washington sembra pieno di falle. Più che attaccare l’Is i turchi stanno bombardando i kurdi. Gli Usa hanno denunciato, per esempio, che una colonna kurda è stata attaccata mentre si dirigeva al passaggio di frontiera di Jarabulus, l’unico che gli resta all’Is, e che la Turchia preferisce fermarsi nella sua pretesa zona liberata.

Per giorni Washington e Ankara sono state in contrapposizione: gli statunitensi dicendo che i kurdi – suoi migliori alleati nella regione – non devono essere attaccati; i turchi sostenendo di aver avvisato i kurdi di non muoversi da dove sono e di non azzardarsi ad attraversare l’Eufrate.

Ma tutto il mondo lo sa che le milizie kurde, in Siria e in Iraq, sono state l’unica forza capace di lottare con efficienza contro lo Stato islamico. Negli ultimi tre mesi alle milizie kurde di Siria si sono uniti tra i 4 e i 5 mila nuovi combattenti.

Tuttavia a fine giugno, un mese prima dell’accordo con Washington, il Consiglio di sicurezza turco valutò al possibilità di attaccare l’Is su territorio siriano. Significherebbe occupare la zona cuscinetto? Il ministro degli esteri Mevlüt Cavusoglu ha detto che non ci sono piani immediati “ma in futuro sarà fatto quanto necessario”. Chi occuperà, se no, questo spazio? Le milizie “relativamente moderate”? Un portavoce del Dipartimento di stato una settimana fa ha detto che “siamo stati molto attenti a non dire come sarà questa area, salvo che il nostro obiettivo è di cacciare l’Is dalla regione”.

Lo scorso 9 agosto il Fronte Al Nursa, una delle milizie più forti, ha emanato un comunicato in risposta alla zona cuscinetto dicendo che, il braccio di al Qaeda in Siria non si può permettere di partecipare ad un piano in cui la Turchia collabora con gli Usa (che ha bombardato alcuni delle sue postazioni e dei suoi leader). Al Nusra ha quindi annunciato il ritiro dal nord della provincia di Aleppo, dove combatteva contro lo Stato islamico, suo grande rivale. Una ventina di effettivi della cosiddetta Divisone30, addestrata dagli Usa, sono stati rapiti da al Nusra il mese scorso mentre attraversavano la frontiera, ed altri combattenti presumibilmente “moderati” sono passati con Isis, il cui portavoce se ne vanta apertamente.

Il 3 agosto scorso, il ministro degli esteri russo, Sergej Viktorovič Lavrov, ha sparato il suo miglior calibro dopo aver avuto alcune riunioni in Qatar: “Abbiamo avvisato i nostri colleghi statunitensi che, fino ad oggi, il risultato ottenuto dall’addestramento dei ribelli della cosiddetta opposizione moderata da parte di istruttori Usa, è stato che la maggioranza di quegli stessi ribelli moderati sono passati con gli estremisti”. Lo Stato islamico si sa, paga più e meglio la sua gente.

L’organizzazione del califfo Abu Bakr al Baghdadi e cresciuta sempre più con i suoi successi militari e le sue capacità di conquistare e governare un territorio. Secondo dati incrociati tra Onu, osservatorio The Soufan Group e Centro internazionale per lo studio della radicalizzazione del King’s College di Londra, si è calcolato che a gennaio l’Is aveva attirato in Siria e Iraq circa 20.000 persona, non solo combattenti ma anche donne e bambini. Sei mesi prima, nel giugno del 2014, i reclutati erano meno di 12.000. Per alcuni analisti la scorsa primavera ha ingrossato le sue fila.
Ce n’è per un bel po’.

Fonte: La Vanguardia – Traduzione: Marina Zenobio

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