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Così funziona il ghetto dei braccianti africani sfruttati

Reportage da una baraccopoli dei raccoglitori africani nel foggiano.Bar, ricaricatori di cellulari, robivecchi, sarti, bordelli, venditori di ghiaccio e acqua calda

 Giulia Bondi [Redattore sociale]

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RIGNANO GARGANICO (Foggia) – Sono donne gigantesche e bellissime a occuparsi di sfamare chi torna dalle campagne dopo una giornata di lavoro a raccogliere i pomodori. La camerunense A., con le sopracciglia dipinte e i riccioli ribelli ingabbiati dentro una retina. M, senegalese dal sorriso incantatore, che i capelli li nasconde sotto foulard colorati ogni giorno diversi, dai nodi elaborati e vistosi. L’ivoriana A., che sembra una dolcissima zia con gli occhiali, e ancora la mauritana che oltre a cucinare riso con pollo arrotonda le entrate affittando parte della sua baracca a un paio di donne un po’ più giovani, che si prostituiscono.

Sono le ristoratrici del Gran Ghetto, la più grande baraccopoli pugliese, che al confine tra i comuni di Foggia, Rignano Garganico e San Severo offre un tetto di plastica e cartone e un materasso (in affitto per 30 o 40 euro per tutta la stagione) agli oltre duemila africani impegnati nei mesi di luglio e agosto nella raccolta del pomodoro.

Con loro, le tante persone che in questo ghetto hanno deciso di vivere, per trarre profitto dalla sua instancabile economia informale. Al confine tra creatività, imprenditorialità e illegalità, al ghetto prosperano robivecchi, venditori di materassi pulciosi e consunti, grigliatori di pannocchie, barbieri, ricaricatori di cellulari. Molti “negozietti” dello slum sono gestiti dagli stessi raccoglitori, che la sera, al ritorno dai campi, dopo la doccia si trasformano in commercianti.

Ci sono attività imprenditoriali più strutturate, come i ristoranti di M., maliana, o di S., senegalese, che danno lavoro a più di una persona tra griglia (carne di pollo o pecora), cucina, servizio al tavolo. “M. fa trenta o quaranta coperti al giorno”, lamenta A., nel cui locale la gente siede per ore bevendo anche solo un caffè o una coca cola. “Ma per forza: suo marito è caporale e i suoi operai sono obbligati a mangiare da lei”.C’è la “Vende d’eau chaud”, la capanna di lamiera di Zaka, che ogni sera indossa una mascherina per proteggersi dal fumo e brucia enormi tronchi per riscaldare l’acqua, a pagamento (al ghetto manca l’elettricità, mentre l’acqua non potabile si attinge in tre punti e poi si trasporta, in secchi o taniche, fino alle docce autocostruite fatte di pallet, legno e plastica ondulata).

A dire il vero, molti dei braccianti non spendono nemmeno i tre euro del piatto del ristorante, ma si organizzano in piccoli gruppetti per cucinare insieme, a turno, il riso condito con le cipolle, le arachidi o qualche pomodoro messo in tasca al ritorno dal campo. Alcuni usano baracche adibite a cucina, altri si accoccolano a sedere su una pietra o una tanica d’acqua. Fanno un fuoco con il gas della bombola, o accendono, con la legna raccolta vicino al ghetto, piccoli falò sulla polvere, con sopra bracieri rotondi di metallo anneriti dall’uso.

E poi, naturalmente, le prostitute. Alcune giovanissime, piccole e formose, fasciate da abitini sgargianti che coprono appena l’inguine. Trucco pesante e trecce colorate tra i capelli neri. Altre meno giovani, sulle prime sempre sfacciate o scostanti, ma anche pronte alla confidenza, con chi vuole ascoltarle per un istante anziché possederle. “Ho tre figli al paese, mio marito è morto, che devo fare amore mio?”, confessa M, nigeriana tenutaria di un locale–bordello. Apparentemente le ragazze non sono schiave, ma libere di tenersi il proprio guadagno giornaliero (10 euro a prestazione) dopo avere pagato 10 euro al locale nel quale esercitano. A gestire i bordelli, e a frequentare le ragazze, ci sono anche gli italiani.Per quasi ogni bisogno degli abitanti del ghetto, se conviene a qualcuno, c’è una risposta di mercato: dalla lavatrice a 4 euro e cinquanta (un lusso), ai negozietti che vendono lucchetti per chiudere le baracche di fianco a cipolle, spezie, riso e melanzane. Dagli zingari che portano ferrivecchi al furgone che ogni mattina gira per le strade più grandi con il megafono sul tettuccio:“Ghiaccio, ghiaccio”. Dal giovane maliano dai lineamenti eleganti che la sera fa il sarto sulla strada principale, lavorando quasi al buio su una vecchia macchina Necchi, fino ai polli vivi, portati da un allevatore italiano su un furgone ogni tre o quattro giorni. Da pecore e montoni che un pastore dei dintorni vende ai macellai del Ghetto fino al costoso servizio taxi (15 euro) per sopperire alla difficoltà di trasporto fino a Foggia, distante solo 14 km ma collegata da soli tre bus, l’ultimo dei quali alle tre del pomeriggio.

Un’economia informale, ma a suo modo capitalista, al confine fra tradizione (le pecore sgozzate nella polvere) e modernità (le torri di trasformatori e caricabatterie per alimentare cellulari e tablet).

Un’economia nella quale, naturalmente, non sempre c’è convenienza a offrire i servizi pubblici. E così per la salute c’è il furgoncino di Emergency quattro volte a settimana. Per l’istruzione c’è la scuola d’italiano, ogni pomeriggio, a cura di “Io ci sto”, progetto dei padri scalabriniani della zona, che nel corso dell’estate conta sulla partecipazione di circa 400 giovani volontari in otto turni settimanali. Per l’informazione e il dibattito ci sono i volontari di Radio Ghetto, che ogni mattina accendono il mixer e passano il microfono ai giovani africani, alternando musica e dibattiti sulle condizioni di vita e lavoro e sul caporalato.

Per la nettezza urbana non c’è nessuno. I tre comuni si rimpallano le competenze, e i rifiuti, dalle bottigliette di plastica alle ossa degli animali macellati, si ammucchiano tra i vicoli e le strade, lungo tutti i confini del ghetto, fino a quando qualcuno non decide di bruciarli. (Giulia Bondi)

© Copyright Redattore Sociale

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