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Aldrovandi, malapolizia nella Zona del silenzio

Zona del silenzio, di Checchino Antonini e Alessio Spataro, la graphic novel sulla controinchiesta inchiesta sull’omicidio di Federico Aldrovandi. Ecco la prefazione 
135357381-ddab9aba-bee5-4eb4-b8af-cf35d5b98b0dn ricordo di Arnaldo Scotti

 

Chi entra nel centro di Ferrara deve attraversare una specie di invisibile strettoia, un restringimento della coscienza morale non percepibile ad occhio nudo. Bisogna avere l’occhio buono per i fantasmi del passato e del presente, per vederla: buono come quello di Bassani, che per primo ne indicò un tratto.

All’imbocco del corso Martiri della Libertà, tra il Castello e il Teatro, un marciapiede fronteggia i portici. Su quel marciapiede, che corre sotto il fossato del Castello, caddero i fucilati del 15 novembre 1943: lo ricorda una lapide. Il turista che (sempre più di rado, ormai) ha conoscenza del racconto bassaniano Una notte del ‘43, o del film di Florestano Vancini La lunga notte del ‘43, sa di cosa si tratta.

E cerca sull’altro lato della strada, con lo sguardo verso l’alto, la finestra al di sopra della farmacia: quella finestra dalla quale Pino Barilari, reso indimenticabile dall’interpretazione di Enrico Maria Salerno, assiste nascosto dalla persiana alla strage fascista senza intervenire. Lasciamo proseguire il nostro turista: appena oltrepassato il Castello si troverà sotto la statua di fra’ Girolamo Savonarola, profeta senz’armi che a Ferrara, “in tempi corrotti”, sferzava le coscienze e fustigava “i vizi e i tiranni”. È scolpito con le braccia larghe e la bocca aperta, nell’atto di inveire contro il malcostume del suo tempo. A Ferrara il Savonarola è ricordato dai cronachisti così: le vicende fiorentine, nelle quali darà prova di pessimo governo, non ne intaccano la memoria. Il turista prosegue alla ricerca della Ferrara Magica, senza badare agli opposti monumenti tra i quali è transitato. La finestra e il profeta urlante che quasi si fronteggiano mettono in scena due città che vivono l’una dentro l’altra.

Da un lato, la città del quieto vivere, della nebbia che nasconde, che spinge a chiudersi nelle proprie case, nel privato: la città dell’indifferenza. Quella Ferrara che con troppa leggerezza, all’indomani del ‘45, dimenticò i suoi trascorsi fascisti e nascose sotto un’improvvisata barba da antifascista vent’anni di obbedienza passiva (ma anche fruttuosa, per l’agraria inurbata e la borghesia rampante) al Regime. Dall’altra parte, la città dell’impegno civile, degli intellettuali raffinati, delle scuole polo nazionali. La città che parla, comprende, scrive, riflette.

Due città. In perpetua lotta tra di loro: la città della nebbia e della viltà, dei salotti buoni e degli affari che aggiungono sempre un posto a tavola e in cooperativa la Ferrara che cerca di soffocare l’altra, la città dell’impegno che combatte per non lasciarsi schiacciare dal quieto vivere.

La città della CoopCostruttori e degli scandali edilizi, dei livelli di inquinamento ai vertici dell’Europa, e la città dei referendum autogestiti contro inceneritori e centrali a Turbogas. La città degli operai della Solvay morti di tumore, e la città che difende quei “galantuomini” dei dirigenti della Solvay. La Ferrara che ogni anno ricorda l’eccidio del castello, ma poi costruisce un asilo nido su una ex discarica di CVM.

Bisogna attraversarla, questa invisibile strettoia del Corso. Bisogna attraversarla anche per attraversare la Piazza e dirigersi verso quella periferica via dell’Ippodromo dove, in una notte di settembre del 2005, un ragazzo ha incontrato una volante della polizia ed è stato ammanettato ed ha conosciuto i manganelli ed ha urlato per mezz’ora, prima di morire ai piedi di un muro. «Di morte violenta», secondo la deposizione dello specialista cardiologo dell’Università di Padova Gaetano Tiene al processo, lo scorso 9 gennaio. Di fronte al muro: palazzine. Finestre. Persiane chiuse e tapparelle abbassate.

Il 25 settembre 2008, la fiaccolata silenziosa che ogni anno parte dalla Piazza Trento e Trieste per raggiungere l’Ippodromo è sfilata sotto quelle finestre. C’erano i genitori di Aldro, gli amici, gli studenti, qualche insegnante, gli Ultras della Spal. C’era la gente comune. Il silenzio della fiaccolata era rotto da un suono macabro, simile al sibilo di un fantasma della lunga notte del ‘43: le tapparelle che venivano frettolosamente abbassate dai condomini. Quel silenzio era insopportabile: rumoreggiava nella coscienza della città di Pino Barilari, della città che si nasconde dietro le tapparelle. Una città che ha abbassato le tapparelle quella notte in cui i manganelli dei custodi dell’ordine pubblico si rompevano mentre Aldro urlava.

Ferrara, Italia.

La notte del ‘43 è la notte della coscienza morale di un’Italia che ha svestito la camicia nera, ma ha lasciato che l’uomo medio – «un pericoloso delinquente, mostro, razzista, colonialista, schiavista, qualunquista», urlava Orson Welles (doppiato da Giorgio Bassani!) ne La Ricotta di Pasolini – continuasse a perpetrare la propria egemonia. Liberatasi dall’incubo della rivoluzione culturale, politica e sociale degli anni Sessanta e Settanta che ha rappresentato, nella sua selvaggia anomalia, l’unico tentativo di creazione autonoma di una cultura, un’identità, un sapere dal basso, scaturito e temprato nel fuoco vivo delle lotte, l’Italia dell’uomo medio ha dissolto il miracolo economico in un pulviscolo sociale rancoroso.

L’italiano medio non è più il punto d’intersezione sociale tra le diverse figure che – dal patto costituzionale tra la classe operaia e la borghesia progressiva alle grandi riforme sociali degli anni Settanta – in modo diverso operavano, anche attraverso il conflitto, per modificare lo stato di cose esistente. L’italiano medio odierno è la media tra le molte non-virtù civiili che esprimono il comune sentire di un paese sull’orlo di una crisi: un paese nel quale – come in The Village, il film di M. Night Shyamalan – l’identità diventa una frontiera, nel quale i sentimenti prevalenti sono la paura, come reazione ad un futuro del quale non si riescono ad identificare i tratti; ed il rancore verso ogni possibile elemento di disturbo della nostra condizione.

È contro questa Italia che sfilano ogni anno gli amici di Aldro. Per quest’Italia, uno come Federico Aldrovandi è un fastidio, un problema. Uno da nominare, da scacciare dalla Casa delle Coscienze Assopite.

Un due tre, viva Pinochet. Quattro cinque sei, Al forno gli ebrei. Sette otto nove, Il negretto non commuove. Così cantavano, nelle loro caserme, alcuni carabinieri, quella sera, a Genova. Il nome di Carlo Giuliani era appena stato reso noto. Per ragioni ancora da spiegare, avevano impiegato ore per identificare un ragazzo già schedato, con un riconoscibilissimo tatuaggio sulla schiena che sporgeva dalla canottiera: molto poco Black Bloc, molto poco in chiave con l’immagine del teppista travisato.

Cinque anni dopo, Haidi Giuliani riconoscerà nella strategia di diffamazione di Aldro gli stessi segni, le stesse insinuanti domande alle quali aveva dovuto rispondere. Il ragazzo era drogato? Aveva animali in casa? Era forse un punkabbestia? Le domande non sono mai neutrali: formulate nel modo giusto, restano impigliate nei gangli della memoria. Se formulate bene, con il giusto tono, prevalgono sulle risposte: predeterminano l’ottica con la quale saranno considerate tutte le successive informazioni. «Come di Federico, – scrive Haidi Giuliani a Patrizia Moretto, madre di Aldro, in una lettera pubblicata il 17 gennaio 2006 su Liberazione – anche di Carlo è stato detto che era un drogato, un poco di buono, uno senza lavoro, senza casa né famiglia, come se esistesse una condanna legittima e automatica alla pena di morte per chi lo fosse davvero. Anche a me è stato impedito per molte, troppe ore, di vedere il suo corpo. Anch’io, come te, non so chi l’ha ucciso. Anch’io, come te, ho aspettato che persone competenti, preposte istituzionalmente a questo compito, restituissero alla sua morte almeno la verità; persone impegnate per legge, così io credevo, ad assolvere il loro compito fino in fondo».

Nel caso di Carlo Giuliani, le registrazioni delle conversazioni tra i carabinieri nelle loro caserme, quel 20 luglio 2001, contengono già la risposta alla domanda “chi è quel ragazzo morto?”: una zecca. “Una zecca del cazzo”. Uno a zero per noi, dice ridendo una poliziotta quella notte. Come due squadre alla partita: noi di qua, le zecche di là. Le zecche sono gli ultras degli stadi, nel gergo dei poliziotti. Sono i “comunisti”, gli anarchici, i No Global. I drogati. Sono gli immigrati clandestini, i migranti, i rumeni, gli zingari. Le palandrane del cazzo, urla nei comizi l’onorevole Mario Borghezio. Scacciamo le zecche! Col fuoco, se occorre. I pagliericci sotto i ponti sono pieni di zecche: sono gli immigrati che ci dormono sopra. Carlo Giuliani era una zecca: come Aldro.


L’italiano medio non ama la complessità: non la comprende, non la trova utile. Le passioni tristi sono un cosa semplice: la paura è un ottimo collante sociale. Funziona: che altro? La complessità è problematica, richiede un lavoro di apprendimento, adattamento, rielaborazione senza fine; richiede la disponibilità a mutare pelle, ad abbandonare gli stereotipi, i pregiudizi. Richiede una flessibilità mentale che spaventa. Negli anni Ottanta, uno dei segnali della restaurazione in corso fu l’improvviso successo, tra una generazione di studiosi che avevano teorizzato la trasformazione dello stato di cose esistente, di teorie sociologiche che consigliavano la riduzione della complessità sociale. Da alcuni anni è considerata un valore la “semplificazione del quadro politico”. Forse qualcuno ricorda ancora che uno degli slogan politici della prima campagna elettorale della cosiddetta “seconda Repubblica” era: “o di qua, o di là”. Non dice forse la stessa cosa quel fine pedagogista che ha messo in moto la riforma della scuola? «La mente umana è semplice e risponde a stimoli semplici» (Giulio Tremonti, “Il passato e il buon senso”, Corriere della Sera, 22 agosto 2008, qui). A dispetto della collocazione (solo a p. 37, non in prima pagina, non tra gli editoriali), questo articolo è una delle più efficaci espressioni dell’egemonia culturale della destra al potere che oggi si dispiega. È un manifesto ideologico, che meriterebbe un’analisi, anche stilistica, minuziosa: non essendo questo il luogo, seguiamone alcune linee direttrici.

La società italiana si sta rinchiudendo dietro uno steccato per proteggersi da mostri immaginari che assediano il villaggio: è il rifugio, è il recinto stesso a generare la paura dell’esterno, dell’aperto. Della diversità. Il villaggio regredisce ad un passato immaginario. «Può essere invece il ritorno al passato e all’800, e molti segni sono in questa direzione, può essere che dall’attuale «marasma» prenda inizio un nuovo futuro», scrive ancora Tremonti nel suo articolo-manifesto. Non importa quanto reale e quanto no – basta che sia anteriore a un numero, il 1968: l’unico numero che il Ministro toglierebbe dalla circolazione. Sostituendo i numeri ai giudizi, il mondo (non solo nella scuola, sostiene Tremonti) ridiventa semplice: come dappertutto i numeri sostituiscono i giudizi. «I numeri sono una cosa precisa, i giudizi sono spesso confusi. Ci sarà del resto una ragione perché tutti i fenomeni significativi sono misurati con i numeri». Su questo Tremonti ha ragione, i giudizi implicano l’attivazione della facoltà del giudicare. Per effetto di quel nefasto numero da togliere – «1968, sintetizzato in 68» – presero piede idee e pensatori che vedevano nella società moderna il germe del totalitarismo nell’atrofizzazione della facoltà di giudicare.

Giudicare è azione anch’essa complicata: più semplice è sostituire categorie come giusto/ingiusto con copie più semplici: bello/brutto, dentro/fuori, amico/nemico. L’obbedienza evita la fatica di pensare. Per effetto di quel numero nefasto, persino i poliziotti cominciarono a pensare. A chiedere la democratizzazione della polizia, che faceva il paio con la virtù della disobbedienza predicata da don Lorenzo Milani, il prete che insegnava ai poveri, inventava la scuola del futuro e finiva sotto processo per aver detto che l’obbedienza non è più una virtù.

Una società democratica è una società nella quale nessuno finisce in galera per aver espresso le proprie opinioni; nella quale il diritto all’istruzione non è un’affermazione teorica, ma un fatto; nella quale non si muore mentre si manifestano le proprie idee, né per aver incontrato una volante della polizia. Ora che il tempo si riavvolge all’indietro, anche la democratizzazione della polizia si è rivelata un’utopia: al suo posto è stato concesso il diritto di sparare, si gridava un tempo nei cortei. A Genova un’intera generazione, cresciuta senza sapere nulla di Francesco Lorusso e Giorgiana Masi, di piazza Fontana e dei morti di Reggio Emilia, scopre quanto è facile morire, nell’Italia di oggi. O quanto è facile uccidere.

L’educazione delle forze dell’ordine è un fatto semplice: noi, loro. Avanzano battendo i manganelli sugli scudi, allo stadio come in via Tolemaide, a Genova. La loro formazione di base è elementare: tutte uguali, le zecche. Compaiono foto del Duce nei portafogli, Faccetta nera nelle suonerie dei telefonini, celtiche bandiere della RSI nelle camerate. Dal Libro Bianco sui fatti di Genova al recente ACAB: All cops are bastards di Carlo Bonini (Einaudi Stile Libero, 2009), ai molti libri-testimonianza di vittime dei pestaggi alla Diaz e a Bolzanetto (come Genova. Il posto sbagliato, di Enrica Bartesaghi, Nonluoghi Libere Edizioni, 2004) le testimonianze sull’educazione e la prassi delle forze dell’ordine pongono un serio problema di democrazia alla società italiana.

E l’esito dei processi per i fatti di Genova dà l’idea di una dilagante impunità. A Genova sono state necessarie migliaia di telecamere in tempo reale per documentare la morte di Carlo Giuliani: a Ferrara il depistaggio, l’occultamento di elementi probanti, le coperture, le false versioni sulla morte di Aldro hanno un che di sciatto, di malfatto. C’è da stupirsi della percezione di intoccabilità che deve aver pervaso i protagonisti attivi di quell’evento, tanto malaccorti sono stati i loro gesti. E quando il blog della madre di Aldro ha cominciato a sgretolare il muro di omertà, la reazione è stata di stizzito stupore prima, e di arroganza poi.

Il 24 febbraio 2006 Gianni Tonelli, segretario nazionale del Sindacato Autonomo di Polizia ha parlato per un’ora, in Questura, seduto tra due esponenti provinciali del SAP. Ha decretato la verità sulle perizie. Ha criticato e dettato l’agenda politica all’opposizione che senza remore ha definito «pavida», «al popolo silente e moderato che non ha voluto dire nulla». Ha stigmatizzato come «azione di sciacallaggio con sfumature politiche, ideologiche e anche culturali» le iniziative di discussione improntate alla richiesta di verità e giustizia. Ed ha attaccato, con nome e cognome, i due presidi delle scuole ferraresi che hanno concesso agli studenti le assemblee per discutere della morte di uno studente, senza preoccuparsi della gravità e della sproporzione di un’accusa lanciata da un dirigente nazionale di un organismo di polizia contro due semplici cittadini: due presidi, Arnaldo Scotti (il cui cuore generoso si è fermato pochi mesi dopo) e Giancarlo Mori, noti in tutta la comunità ferrarese per la dedizione con cui hanno speso un’intera vita per la scuola. Le scuole non devono insegnare a pensare: devono insegnare ad apprendere i fatti, senza interpretazioni. Perché non ci sono, non ci devono essere interpretazioni: solo fatti. Statuto delle studentesse e degli studenti o meno, diritto d’assemblea o no, non c’è nulla da discutere: «una donna ha chiesto l’intervento delle forze dell’ordine perché c’era una giovane persona che per l’alcol e le sostanze stupefacenti si stava facendo del male. Poi purtroppo questa persona è deceduta».

Non ha dubbi il dirigente del SAP.
La vita e la morte sono fatti semplici, si vive e si muore: cosa c’è da interrogarsi sulla morte di uno come Aldro?
Della morte di una zecca?

3 COMMENTI

  1. complimenti per l’articolo….toccante….a suo tempo avevo proposto di indire una colletta per raggiungere una somma sufficente a mettre una taglia sulla testa de magnifici quattro………no pasaran

  2. Del tutto d’accordo KEKKO!
    Purtroppo iniziative del genere danno, almeno in parte, la profondità dello sfacelo cuturale, e quindi politico, che l’offensiva ideologica del capitalismo più retrivo ha prodotto, dagli anni ’80 in poi.
    Anche in chi mostra le migliori intenzioni.
    Forse è prorpio in questa “incapacità” di praticare vie alternative e diverse dal pensiero unico dominante che si trova la più grande parte delle difficoltà in cui si dibatte (e neanche troppo!) ciò che resta della sinistra e peggio ancora la coscienza civile di questo Paese.
    L’indicazione dell’ottimo articolo di Girolamo Di Michele di ripartire dal momento più alto di questa capacità critica di massa, il ’68 e il seguito – specie in Italia, mi sembra quanto mai appropriata.
    La democrazia è un valore inoppugnabile e ogni volta che lo si dimentica si fanno non solo passi indietro ma autentiche capriole carpiate!

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