Caporalato, almeno 10 i braccianti morti in Italia in estate. Uno era un burkinabè ucciso a fucilate 10 giorni fa a Lucera, poi da Crotone al Veneto altri 3 italiani, 3 romeni e 3 africani morti di caldo e fatica
“Data Accadimento: 20 luglio 2015. Età: 46. Luogo Nascita: Z348. Identificativo datore di lavoro: -1”. È così che diventa parte di una statistica chi muore sul lavoro. Questi dati, disponibili sul sito dell’Inail, corrispondono all’infortunio che quest’estate è costato la vita a Mohammed Abdullah, sudanese, morto nelle campagne di Nardò, in provincia di Lecce, mentre raccoglieva i pomodori. Stessa tabella, poche righe più in là: altri numeri riassumono freddamente la vicenda di Paola Clemente, 49 anni, morta il 13 luglio mentre lavorava all’acinellatura dell’uva nelle campagne vicino Andria. I dati dicono che anche che Mohammed Abdullah non aveva contratto. Paola Clemente, che lavorava per un’agenzia interinale, figura come impiegata in attività di “consulenza gestionale”.
Un altro file, un’altra storia di fatica e lavoro precario, finita con la morte: George Barbieru, cittadino rumeno, morto il 6 luglio a Belfiore, provincia di Verona. Secondo la stampa locale (il suo caso a quella nazionale non è mai arrivato) l’uomo sarebbe morto dopo avere fatto poche centinaia di metri in bicicletta, al termine di una mattinata di lavoro. I giornali scrivono che era assunto come bracciante per una settimana da un’azienda agricola, per lavori nel frutteto. Eppure anche nel suo caso l’Identificativo datore di lavoro è la Posizione assicurativa sono“-1”: il contratto non c’è. Si fermano qui, i dati aperti. Per il censimento delle morti di agosto bisognerà aspettare ancora qualche settimana.
Nell’attesa ci sono le fonti giornalistiche. E solo in Puglia, ad agosto 2015, nei campi o nelle aziende agricole, sono morte altre due persone. Maria Lemma, 39 anni, era di Ginosa in provincia di Taranto ed è morta prima di Ferragosto, anche se la vicenda si è saputa una settimana dopo. Il suo caso non ha avuto clamore, la famiglia avrebbe deciso di non sporgere denuncia perché “la donna soffriva già di diverse patologie”. Zakaria Ben Hasine, tunisino 52enne, in Italia da una vita, con moglie e quattro figli, è morto il 3 agosto nell’azienda agricola in cui lavorava. E il 9 settembre è morto Arcangelo De Marco, che lavorava, sempre nei vigneti, per la stessa agenzia interinale di Paola Clemente. De Marco è morto a seguito di un malore che lo aveva colto tre settimane prima. Non è ancora chiaro dove si trovasse esattamente a lavorare quel giorno, se nella zona di Andria, in Puglia, o in quella di Metaponto, Basilicata.
Altre fonti di cronaca, calabresi, raccontano della morte di Vasile Tusa, 36 anni, bracciante agricolo rumeno, deceduto il 9 agosto all’ospedale di Crotone, a qualche giorno di distanza da un malore che lo aveva colto al termine del lavoro. Il 13 agosto, a Carmagnola, provincia di Torino, muore Ioan Puscasu. Rumeno, 47 anni, secondo i giornali stava lavorando in una serra di fagiolini arroventata dal caldo. Era in Italia da 7 anni, il contratto non l’aveva, pare amasse pescare e coltivare l’orto.
Diventeranno anche loro statistiche, o forse no. Nei dati Inail della Sicilia non c’è traccia diStefan Cincu, 59 anni, rumeno, morto l’11 giugno scorso al ritorno da una giornata nei campi in provincia di Ragusa. Di lui, la stampa scrive che “aveva detto al datore di lavoro di non sentirsi bene e gli era stato permesso di andare a casa in anticipo”, ma precisa anche che “era un assiduo assuntore di sostanze alcooliche”. Chissà se basterà questo a eliminare la fatica, e il lavoro, tra le cause del suo malore e della sua morte, anch’essa mai arrivata oltre la cronaca locale.
Ammonta almeno a nove, tre italiani, tre rumeni e tre africani, la conta dei morti legati all’agricoltura (e quasi tutti sotto il caporalato) soltanto nell’ultima estate. Poi c’è Sare Mamadou, 37 anni, del Burkina Faso, che il 22 settembre a Lucera, provincia di Foggia, non è morto sul lavoro, ma ucciso dai colpi di arma da fuoco di Raffaele Piacente, 65 anni. Gli spari di Piacente hanno colpito ferendolo gravemente anche un altro giovane burkinabé, Adam Kago, mentre un terzo bracciante è rimasto illeso. I tre avevano rubato (spigolato, secondo le testimonianze di altri braccianti) meloni dal campo della famiglia Piacente. (Giulia Bondi)
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Il pericolo non è solo il caldo, la fatica, la mancanza di protezioni adatte. I lavoratori muoiono anche per le strade. È vero per tutti i settori, ma quando si parla di agricoltura il rischio dei cosiddetti infortuni “in itinere” è aggravato dalle distanze, dalle strade dissestate, dai luoghi spesso isolatissimi dove vivono i braccianti, siano ghetti o centri di accoglienza. Per chi lavora sotto un “caporale”, andare al lavoro in bicicletta significa tenere per sé una parte in più del guadagno della giornata, senza essere costretti a pagare il trasporto, ma anche rischiare di essere investiti.
Ricostruire una dimensione del fenomeno è difficile: non sempre le notizie che parlano di cittadini stranieri investiti nelle cronache locali fanno capire se le persone stessero andando o tornando dal lavoro. A volte la stampa chiama “bracciante” una persona di pelle nera, che magari non lo è davvero, o non lavorava quel giorno. Se si aggiunge che molti degli investiti, siano morti oppure feriti, non lavorano in regola, si capisce come i dati ufficiali non riescano a dare conto esattamente del fenomeno.
Tra i casi emersi nel 2015, da una ricerca sulle testate locali online, solo uno è certamente censito anche dalle statistiche dell’ente per la sicurezza sul lavoro: Mifthi Moussa, 40 anni, tunisino, morto il 15 gennaio investito da un’auto pirata in provincia di Ragusa, dove lascia la moglie e 4 figli. Singh Baljit, bracciante indiano, investito a gennaio in provincia di Latina, muore alla fine di settembre dopo otto mesi di coma. Era un bracciante anche Ismail Fadel, 36enne tunisino, investito a inizio agosto, sempre nel ragusano, da due donne che prima sono fuggite e poi hanno confessato l’accaduto alle forze dell’ordine. Sono braccianti Salif, burkinabé, morto il 27 luglio, investito da un’auto a Capua, provincia di Caserta, e i due ragazzi che erano con lui, rimasti feriti. Nel foggiano, il 3 settembre, muore in bicicletta, investito da un’auto, un 46enne senegalese.
Non è una morte sul lavoro, ma nemmeno del tutto estranea al mondo di illegalità che circonda il lavoro agricolo stagionale, quella della bambina foggiana di 11 anni che il 2 agosto è rimasta vittima di un incidente tra l’auto del padre e una Escort con targa bulgara, guidata da un bracciante della Guinea Bissau che viveva al Gran Ghetto di Foggia.
Il 6 agosto, sulla strada tra Taranto e Massafra, un autobus di braccianti con 33 passeggeri è finito fuori strada, con un bilancio di 4 feriti. Ci sono altri feriti non gravi, di nazionalità italiana, in incidenti degli stessi giorni nelle province di Bari e di Lecce, che vedono coinvolte auto di agricoltori e braccianti al rientro dal lavoro. Di braccianti stranieri rimasti feriti, spesso da auto pirata, parlano anche le cronache di Marsala e Catania, in Sicilia o di Terracina in Lazio, sempre restando soltanto al 2015.
In Calabria, nel 2014, in un solo incidente morirono due donne rumene e un’italiana, e altre tre rimasero ferite. Sei lavoratori rumeni, tre uomini e tre donne, morirono nell’incidente della loro Fiat Multipla contro un treno, sempre in Calabria, nel 2012.
Anche per il bracciante fucilato a Foggia pochi giorni fa da un uomo al quale aveva sottratto dei meloni c’è un precedente: nel 2010, l’agricoltore foggiano Domenico Corbo uccise a colpi di arma da fuoco il cittadino rumeno Ionel Marin, in fuga dal suo podere dove sembra avesse tentato di rubare degli attrezzi agricoli. Per l’omicidio, Corbo fu condannato nel 2012 a sette anni di reclusione. (Giulia Bondi)
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