Le azioni terroristiche a Parigi e la risposta francese con i bombardamenti in Siria e o stato d’emergenza sono tutti gesti che servono a seminare divisioni, paura e disperazione tra i soggetti colpiti dalla crisi
di Italo Di Sabato*
A seguito degli attentati terroristici del 13 novembre a Parigi il governo francese ha dichiarato lo “stato di emergenza” su tutto il territorio francese, una misura “straordinaria” che dà poteri speciali ai prefetti e permette di dichiarare il coprifuoco, interrompere la libera circolazione, impedire qualsiasi forma di manifestazione pubblica e chiudere luoghi come le sale da concerto e i bar. Consente inoltre il controllo dei mezzi d’informazione e permette alle forze dell’ordine perquisizioni a domicilio di giorno e di notte.
Una misura straordinaria che rischia di diventare la modalità attraverso la quale non solo si cerca di governare l’avvenimento eccezionale ma si normalizza l’andamento democratico in nome della sicurezza nazionale.
Per Giorgio Agamben, autore de “Lo stato di eccezione”, (Bollati Boringhieri), Lo stato di eccezione è una soglia oltre la quale vengono meno le tradizionali differenze fra democrazia, assolutismo e dittatura. Dall’inizio del secolo “la creazione volontaria di uno stato di eccezione permanente è divenuta una delle pratiche essenziali degli stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici”. Una realtà che “ha continuato a funzionare quasi senza interruzione a partire dalla prima guerra mondiale, attraverso fascismo e nazionalsocialismo, fino ai nostri giorni”, sostiene Agamben dopo aver passato in rassegna le innumerevoli difficoltà incontrate dalla tradizione giuridica di fronte al tentativo di fornirne una definizione concettuale e terminologica certa.
Lo stato di eccezione non è un ritorno al potere assoluto, né tantomeno un modello dittatoriale, non è pienezza bensì vuoto, vuoto del diritto come l’esempio del “iustitium” insegna. Lo stato di eccezione – prosegue Agamben: “ha assunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario. L’aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale che, ignorando all’esterno, il diritto internazionale e producendo all’interno, uno stato di eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto”. La conclusione è senza appello, “dallo stato di eccezione effettivo in cui viviamo non è possibile il ritorno allo stato di diritto, poiché in questione ora sono i concetti stessi di stato e di diritto”.
Dopo aver letto queste parole è inevitabile pensare a quella serie di provvedimenti intrapresi dall’amministrazione Usa dopo l’11 settembre 2001, e che hanno condotto al deserto giuridico di Guantanamo, il più visibile dei luoghi invisibili. L’internamento di individui, non prigionieri accusati, rilancia l’emblema tragico del campo, zona in cui “la nuda vita raggiunge la sua massima indeterminazione”. Le nuove dottrine strategiche, riassunte dietro formule come “giustizia infinita” e “guerra preventiva”, sembrano voler fare dello stato di eccezione il paradigma di governo che domina quella che da più parti è stata definita “guerra civile mondiale”.
La dichiarazione dello “stato di emergenza” in Francia, in un momento così fragile per gli equilibri democratici non solo francesi ma europei, cosi come è accaduto negli USA dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, diventa lo strumento necessario per fornire il pretesto per una formidabile accelerazione di quella trasformazione dei codici penali e di procedura penale che era in corso da molti anni.
Misure che offriranno una nuova finalità e una nuova legittimazione alla trasformazione del diritto penale, una messa in discussione dell’esistenza stessa dello Stato di diritto. Ciò che era stato deciso in gran segreto verrà alla luce e troverà la più ampia giustificazione. Tutte le misure saranno giustificate dell’emergenza, ma si iscrivono in una guerra di lungo termine al terrorismo.
Lo stato di emergenza si iscrive nella durata: esso appare come una nuova forma di regime politico votato alla difesa della democrazia e dei diritti umani. In altri termini, il cittadino deve essere disposto a rinunciare per lungo tempo alle sue libertà concrete al fine di mantenere un ordine democratico autoproclamato e astratto.
L’esempio degli Stati Uniti conferma l’efficacia di questa politica: i sondaggi rilevano che sempre più persone sono disposte a tollerare maggiore sorveglianza e a fare qualche concessione rispetto ai propri diritti alla privacy.
La lotta al terrorismo diventa lo strumento privilegiato di legittimazione di qualunque potere. I governi che partecipano alla politica di lotta al terrorismo sono considerati naturalmente democratici; al contrario qualsiasi movimento politico radicale che si oppone a un governo aderente al programma di lotta al terrorismo può essere criminalizzato. Per esempio, la lista di organizzazioni terroristiche redatte dal Consiglio Europeo comprende il PKK, il partito curdo impegnato in questi mesi in difesa dei territori contro l’avanzata dell’Isis. Questa disposizione criminalizza il Pkk legittimando contemporaneamente il governo turco ben noto per le sistematiche violazioni dei diritti umani.
Ogni governo quale sia la linea politica, nel momento che aderisce all’ “esercito del bene contro l’esercito del male” si trova investito della missione di difendere le libertà fondamentali. Ad esempio l’istituzione del mandato d’arresto europeo (Mae) costituisce un buon esempio di questo riconoscimento, reciproco e automatico, da parte degli Stati membri dell’Unione Europea. Esso permette la consegna quasi automatica, da parte di uno Stato membro, di una persona ricercata dall’autorità giudiziaria di un altro Stato membro. Rispetto alle procedure di estradizione, questo mandato sopprime tutti i controlli politici e giudiziari che contemplano la legalità della richiesta e la possibilità di presentare ricorso: la domanda viene incondizionatamente riconosciuta e soddisfatta dagli altri paesi, qualunque sia la sua legittimità o la sua conformità ai principi dello Stato di diritto.
In questo quadro ogni movimento sociale può essere criminalizzato in nome della lotta al terrorismo. Le norme permettono di perseguire qualunque azione compiuta da un movimento il cui obiettivo non è solo quello di opposizione ma anche quello di influenzare le politiche governative o di fare pressione su un’organizzazione internazionale.
In questo processo, che ha lo scopo di ridisegnare l’organizzazione della società, il diritto penale acquista un ruolo costituente, è un atto di autorità suprema. Il cambiamento è talmente significativo da provocare un vero e proprio stravolgimento della norma: le “eccezioni” diventano la regola. Le procedure d’eccezione si sostituiscono alla costituzione e alla legge come forma di organizzazione del politico.
Le azioni terroristiche del 13 novembre a Parigi e la risposta del governo francese con i bombardamenti in Siria sono entrambi attacchi ai movimenti sociali, perché intesi a causare la criminalizzazione delle lotte, divisioni, paura e disperazione tra i soggetti colpiti dalla crisi sociale, economica e ambientale e per gestire con mezzi eccezionali i flussi migratori e quant’altro attiene alla globalizzazione in un mondo di guerra permanente. E’ decisiva la nostra opposizione alla guerra e alle restrizioni crescenti delle libertà civili, cosi come decisiva è la libertà di oltrepassare i limiti posti per criminalizzare e cancellare le capacità sociali e organizzative dei movimenti.
*Osservatorio sulla Repressione
NO alla GUERRA NO AL VERTICE NATO
Firenze non può ospitare il vertice NATO del 25/26 novembre, un vero e proprio vertice di GUERRA, con la nostra città militarizzata, praticamente al fronte. E noi non vogliamo essere arruolati e NON CI ARRUOLIAMO! https://lnkd.in/dCFwbcP