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Che cosa resta oggi della rivoluzione egiziana?

Il contesto in cui è maturato l’omicidio di Giulio Regeni. Secondo le organizzazioni per i diritti umani in Egitto non è mai stato peggio di così. Cosa rimane della rivoluzione egiziana?

di Mauro Saccol*

L’analisi del contesto egiziano nel quale ha trovato la morte al Cairo il ricercatore 28enne Giulio Regeni. Secondo attivisti della società civile e organizzazioni per la difesa dei diritti umani la situazione nel paese non è mai stata peggiore. Arresti arbitrari, sparizioni, torture e abusi. Negli ultimi anni, l’Italia si è confermata secondo partner economico a livello mondiale dell’Egitto (primo in Europa), secondo mercato in assoluto per le esportazioni, al quinto posto tra i Paesi fornitori, tra i primi Paesi per valore di investimenti. Abbiamo chiesto un intervento a un ricercatore italiano, Mauro Saccol

 

Piazza Tahrir, 2011. Forse la più grande dimostrazione della storia dell'umanità
Piazza Tahrir, 2011. Forse la più grande dimostrazione della storia dell’umanità

L’anno 2011 segnava una tappa storica della storia egiziana. La caduta di Mubarak, le prime elezioni democratiche, la consapevolezza da parte dei giovani e, in generale, dei cittadini di poter contribuire attivamente alla vita politica, economica e sociale del loro paese avevano generato forti aspirazioni. A cinque anni di distanza, tuttavia, l’Egitto sembra sprofondare in una crisi che si potrebbe definire umana. Difatti, in seguito alla deposizione del presidente Morsi nel 2013, il regime militare di al-Sisi, grande alleato dell’Italia e dell’Occidente nella “lotta al terrorismo”, ha impostato una politica di repressione nei confronti delle opposizioni, e in generale di tutti i cittadini, che esula da qualsiasi forma di rispetto della vita e della dignità umane.

Nell’agosto del 2013 il massacro di Rabi‘a al-‘Adawiya, dove perirono circa mille sostenitori del presidente Morsi per mano dei militari, inaugurò una nuova stagione di terrore nella società egiziana. Da allora, gli arresti arbitrari nei confronti di studenti e di presunti membri dei Fratelli Musulmani, o di attivisti per i diriti umani e politici in generale, si sono susseguiti in maniera consistente. Allo stesso tempo, i principali partiti e movimenti di opposizione, quali gli stessi Fratelli Musulmani e il Movimento 6 Aprile, sono stati resi illegali, fornendo quindi una base giuridica al regime per portare avanti campagne massicce di arresti.

Tuttavia, dagli ultimi mesi del 2013, la situazione sembra essere sfuggita a ogni tipo di controllo. La polizia è ritornata il mostro che, durante l’era Mubarak, aveva potuto arrestare, torturare e massacrare decine di migliaia di cittadini in maniera indiscriminata, tanto che la tortura nelle carceri o nei commissariati è una pratica comune, denunciata da varie organizzazioni per i diritti umani nazionali e internazionali.

L’aspetto peggiore della repressione riguarda le sparizioni forzate. La Egyptian Commission for Rights and Freedoms, una ONG locale, ha stimato che negli ultimi due mesi del 2015 si siano registrate 340 sparizioni forzate, tuttavia nell’intero 2015 le cifre aumentano considerevolmente. Freedom for the Brave, un gruppo indipendente, ha documentato 164 casi tra Aprile e Giugno 2015, mentre un rapporto della campagna Stop alle Sparizioni Forzate riportava che nel solo mese di agosto si erano registrati 215 casi di sparizioni forzate. Spesso le persone vengono ritrovate nelle carceri, con visibili segni di tortura, mentre nei casi peggiori, come quello dello studente Islam Salah, ne viene rinvenuto direttamente il cadavere.

Ciò che preoccupa è il clima di terrore che si è venuto a creare. La paranoia è il sentimento che si è diffuso tra le forze di sicurezza e i militari: anche un tweet, o una condivisione su Facebook può mettere in pericolo la vita di un cittadino egiziano, mentre vari giornalisti e attivisti imprigionati vengono considerati spie al servizio di qualche potenza straniera interessata a incrinare l’unità nazionale.

Tutto ciò avviene nella più totale impunità. Le recenti elezioni parlamentari, passate inosservate a livello internazionale, hanno visto trionfare la lista che supporta il presidente al-Sisi, di conseguenza il parlamento si è trasformato in un mero organo a sostegno della volontà del dittatore. Inoltre, il Ministro della Giustizia al-Zind, figura legata all’establishment militare, ha recentemente dichiarato come centinaia di migliaia di Fratelli Musulmani dovrebbero essere uccisi per vendicare gli attacchi alle forze di sicurezza nel Sinai. Pertanto, a livello istituzionale manca qualsiasi base per aprire inchieste o formare commissioni atte a giudicare i perpetratori di tali violenze.

Il regime egiziano, dal canto proprio, tenta di nascondere tali abusi in modo da non turbare l’opinione pubblica internazionale e attrarre investimenti importanti per risolvere la crisi economica. Quando tale strategia non riesce, si giustificano le violenze in nome della sicurezza nazionale. In aggiunta, la situazione instabile in Libia, Siria e Iraq viene utilizzata come monito da al-Sisi, il quale sostiene come il suo intervento abbia impedito lo scoppio di una guerra civile in Egitto e, di conseguenza, la caduta del paese in un turbine di disordine e anarchia. Tuttavia, nessun pretesto può giustificare una repressione su così vasta scala, irrispettosa di qualsiasi valore e dignità umana. Non bisogna dimenticare che la brutalità della polizia, gli abusi e la soppressione delle libertà fondamentali hanno costituito gli elementi cardine su cui si sono imperniate le proteste del 2011.

Pertanto, le ripetute violazioni dei diritti umani e la repressione difficilmente potranno generare un clima stabile all’interno del paese, bensì potrebbero contribuire ad un inasprimento della crisi sociale già in atto e sortire, così, l’effetto opposto. A tal proposito, come riportato da Mohamed Soltan, gruppi terroristi, quali il cosiddetto Stato Islamico (o ISIS), sfruttano la frustrazione e la disperazione dei giovani imprigionati per arruolare nuovi membri. Inoltre, le pessime condizioni economiche in cui versa l’Egitto, e le scarse prospettive future, costituiscono un ulteriore incentivo per unirsi a gruppi armati.

In conclusione, la situazione egiziana attuale si presenta addirittura peggiore rispetto a cinque anni fa, tanto che varie testate internazionali hanno definito il regime di al-Sisi come il peggiore che l’Egitto abbia mai avuto. Le aspettative di transizione democratica suscitate dalla Rivoluzione sono state accantonate dalla contro-rivoluzione messa in atto dai militari, i quali si considerano i depositari delle sorti della nazione e, come dimostrato dal 2011, non sono disposti a sottomettersi ad un governo civile. Le speranze future risiedono nella presa di coscienza da parte dei giovani che attuarono la Rivoluzione che un’alternativa pacifica, civile e democratica possa esistere per il paese. Lo spirito che ha animato la ribellione al regime di Mubarak non è scomparso e rimane ben presente all’interno della società egiziana. Nonostante le difficoltà, diverse associazioni e ONG sono sorte in seguito al 2011 e lavorano quotidianamente per cercare di diffondere una cultura che sia rispettosa della vita e della dignità umane. Come tutte le Rivoluzioni, il processo non sarà breve e tanto meno facile, tuttavia l’importanza di ciò che accadde nel 2011 risiede nell’aver posto le basi per un reale cambiamento futuro.

*Dottorando in Democrazia e diritti umani presso l’Università di Genova

 

1 COMMENTO

  1. Giulio Regeni era un nostro giovane connazionale che, oltre alla capacità di parlare correntemente almeno tre lingue, tra cui l’arabo, poteva vantare una brillante carriera di studente ad Oxford e successivamente di ricercatore a Cambridge. A leggere gli articoli della stampa sulla tragica vicenda che ha portato alla sua morte, si riceve l’impressione che il suo fosse l’‘identikit’ perfetto dell’agente segreto. Secondo quanto riferiscono i giornali, egli era anche un collaboratore del “manifesto”, alla cui redazione inviava articoli sul Vicino Oriente firmati con uno pseudonimo e caratterizzati da un orientamento politico ostile al regime di Al Sisi e vicino alla variegata opposizione egiziana, non esclusa quella rappresentata dal fondamentalismo islamico più oltranzista. In sostanza, se si considera l’equazione tra la politica estera statunitense nel Vicino Oriente e la simulazione della guerra all’ISIS, si può ipotizzare che Regeni fosse un agente filoamericano al servizio dell’Occidente. Il “manifesto”, un giornale non nuovo a coinvolgimenti nelle ‘spy story’, come dimostrato dal sequestro della giornalista Giuliana Sgrena in Iraq, che costò la vita all’agente segreto italiano Nicola Calipari nel 2005, ne era a conoscenza? In caso affermativo, dovrebbe spiegare ai suoi lettori il significato di queste sue iniziative che si pongono in un contrasto stridente con la propria ispirazione politica; se invece la redazione del “manifesto” non era a conoscenza del ruolo svolto da un suo collaboratore, ancorché occasionale, meglio sarebbe per essa cambiare mestiere.
    La stessa imbarazzante polemica, sorta tra i famigliari del giovane e la redazione del “manifesto” sulla tardiva pubblicazione di un articolo da lui inviato, rende più densa la coltre di ambiguità che circonda una vicenda di per sé tragica, ma anche tutt’altro che indecifrabile. Sorge allora spontanea la domanda: è possibile che Regeni non lavorasse unicamente per i servizi segreti italiani? Una domanda che chiama in causa, anche su questo terreno minato, la questione della sovranità nazionale, poiché legittima il sospetto che il ruolo dei nostri servizi segreti (così come quello del nostro paese nella competizione imperialistica) possa essere quello dell’asino che porta sulla groppa la botte di vino, ma beve l’acqua. È prevedibile che queste domande, queste ipotesi e questi sospetti siano destinati a restare senza risposta. Meno problematica sembra essere invece la risposta a chi afferma che la mitica testata di Luigi Pintor e Rossana Rossanda si è ormai ridotta, da lunga pezza, a svolgere, in un sistema dove il potere si sceglie e si costruisce le sue opposizioni, il ruolo sussidiario di “agenzia” di propaganda imperialista per signorini ‘radical-chic’.

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