Rimpatri di massa verso la Turchia e frontiere chiuse per i migranti. Tsipras è pronto ma la Grecia ha bisogno di più tempo. Angela Merkel in linea con Viktor Orbán
di Giampaolo Martinotti
La Turchia diventerà la più grande prigione a cielo aperto per migranti. L’accordo raggiunto con l’Ue dopo l’ultimo vertice europeo è già in vigore da due giorni, e anche se le operazioni di rimpatrio dei migranti non sono ancora ufficialmente iniziate il portavoce del coordinatore del governo greco per le politiche migratorie, Giorgos Kyritsis, fa sapere che si tratta solo di una questione di tempo. Il testo, approvato dai leader dei 28 paesi dell’Unione, prevede infatti l’attuazione di un programma che nella sua brutalità è piuttosto ambizioso. I migranti in arrivo sulle coste greche verranno respinti verso la Turchia, mentre i profughi sulla rotta balcanica, in maggioranza siriani, afghani e iracheni in fuga dalle guerre che ben conosciamo, saranno rispediti sempre tra le braccia del presidente Erdoğan in attesa di tempi migliori. In pratica, le deportazioni di massa previste dall’accordo, delle quali si faranno carico l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere (Frontex) e le autorità turche, spingeranno migliaia di persone disperate e in cerca di rifugio verso un regime autoritario che semplicemente non riconosce la convezione di Ginevra sui rifugiati. Le domande di asilo poi non potranno essere prese in considerazione in maniera individuale, mentre per ogni siriano deportato in Turchia, un siriano già presente in territorio turco verrà ricollocato in un paese dell’Unione. Per la riuscita di questo meccanismo, l’Europa si è impegnata per un massimo di 72mila posti disponibili, ma in Turchia sono già presenti 2,3 milioni di profughi siriani.
La Grecia, ormai umiliata in tutto e per tutto, viene delegata con Ankara alla gestione dei flussi migratori e della crisi umanitaria che l’Europa non ha il coraggio di affrontare. Secondo l’Unità di crisi ellenica al momento più di 45mila migranti si trovano all’interno del paese, e il loro numero è in costante aumento. Le condizioni del campo di Idomeni, località al confine tra Grecia e Macedonia dove sono bloccate più di 10mila persone, sono disperate; i profughi, tra cui numerose donne e bambini, sopravvivono nel fango riparati in minuscole tende già allagate dalle piogge torrenziali. Le ong presenti parlano di scarsità di viveri e denunciano condizioni igieniche tragiche, lanciando l’allarme su possibili epidemie di epatite e colera. Come riportato dall’Independent, il ministro dell’Interno greco Panagiotis Kouroublis ha definito la tendopoli di Idomeni una “moderna Dachau” nella quale le condizioni di vita dei rifugiati rispecchiano quelle dei campi di concentramento nazisti. Nel frattempo, l’Ue e l’UNHRC, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, stanno valutando gli aiuti e il numero dei funzionari da inviare sulle isole greche per fermare i migranti, tralasciando paradossalmente una situazione ancora più drammatica.
In questo contesto, il premier turco Ahmet Davutoğlu incassa una vittoria diplomatica che umilia la democrazia e che mette in luce tutta l’ambiguità di un’Unione europea orfana dei suoi valori. In un primo momento le sue richieste avevano addirittura infastidito un paio di leader europei più critici, ma le pressioni e l’abilità di Angela Merkel, in versione Viktor Orbán, hanno fatto immediatamente richiudere gli occhi dell’Europa davanti all’insopportabile ferocia del regime turco. La Turchia dunque riceverà 3 miliardi di euro di aiuti finanziari per “prendersi cura dei migranti” e, se non dovessero bastare, altri 3 miliardi aggiuntivi verranno versati entro e non oltre la fine del 2018. La guerra ha un costo, questo è poco ma sicuro, e che sia portata avanti nei confronti dei migranti o rilanciata dall’estate scorsa contro il popolo curdo poco importa. Il presidente Erdoğan, che non aveva apprezzato l’appello sottoscritto da 100 eurodeputati per rimuovere il PKK dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche, gongola e apre le tasche nell’attesa dei “fondi europei”, bacchettando i paesi membri per il loro presunto sostegno al partito di Öcalan. L’opportunità di liberalizzare i visti d’ingresso nell’area Schengen per i cittadini turchi e la nuova promessa europea di far ripartire i negoziati per l’adesione di Ankara all’Unione, entrambe condizioni contenute nell’accordo, rappresentano in una certa misura un nulla osta alle forze di sicurezza turche per continuare la brutale repressione della popolazione civile e dell’opposizione politica filocurda.
Con questo accordo non solo l’Unione europea rinuncia ad una strategia di gestione lungimirante e umana della crisi dei migranti ma, da un lato, sottovaluta la gravità del conflitto in corso nel sud-est della Turchia e, dall’altro, minimizza l’evidente processo di fascistizzazione dello Stato messo in moto dall’alleato Recep Tayyip Erdoğan. La strategia della tensione che sta rapidamente canalizzando tutto il potere verso l’Akp, il partito del presidente, tiene in ostaggio il popolo turco ed è essenzialmente funzionale all’occultamento dei massacri di civili nel Kurdistan, atrocità documentate per le quali i soldati del regime restano impuniti, o agli attacchi dell’esercito nei confronti delle Unità curde di protezione popolare impegnate nella lotta all’Isis. Perquisizioni ed esecuzioni sommarie, arresti arbitrari, saccheggi e violenze d’ogni sorta. Per non parlare dell’arresto di alcuni noti avvocati per la loro attività in difesa dei diritti umani, o della censura e degli attacchi alla libertà di stampa. Giornali e televisioni sono da tempo vittime di una repressione capillare, come dimostrano la miriade di abusi denunciati. Basti pensare alla carcerazione di Can Dündar ed Erdem Gül, direttore e caporedattore del quotidiano di opposizione laica Cumhuriyet, che rimessi in libertà dopo 3 mesi di reclusione ora rischiano l’ergastolo, oppure al più recente commissariamento del quotidiano Zaman, critico con il governo e accusato dai procuratori di essere vicino agli ambienti del terrorismo.
Affidare la vita di migliaia di profughi, in fuga da guerre e povertà, nelle mani di un regime che viola ripetutamente i diritti umani è un crimine disumano. Il silenzio e l’incapacità dei governi europei dinanzi al dramma che si consuma ai confini dell’Unione fa oggi dell’Europa la fortezza dell’individualismo omogeneizzato e dei rapporti sociali effimeri, specchi che riflettono la banalità di una società di massa totalmente controllata dalle mistificazioni del pensiero dominante. La maggior parte dei cittadini europei è costretta a vivere in balia di una quotidianità anestetizzata, dove i bisogni artificiali vengono attenuati da un consumismo meno frenetico ma sempre più avvilente. La superficialità e l’egoismo della politica non sono altro che il simulacro della lobotomizzazione delle menti, mentre assistiamo da testimoni passivi a una catastrofe umana e culturale di portata storica. In un contesto del genere, lo sfogo “naturale” alla crescente frustrazione generale si materializza nell’inesorabile processo di autodistruzione che mette le classi subalterne le une contro le altre, facendoci biasimare gli sfruttati prima degli sfruttatori e spingendo così i nostri governi a condividere le più vigliacche posizioni dei partiti di estrema destra. L’accordo con la Turchia segue queste dinamiche e rientra di fatto tra i più grandi fallimenti di un’Unione europea ormai dispotica e inevitabilmente destinata all’agonia.