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Mafia del Brenta, le narrazioni tossiche sul boss

Non era colto, né generoso e nemmeno un gentiluomo. Solo un boss mafioso rozzo, feroce e ricco. La sua prima condanna fu per tentata violenza sessuale. Ma nel Nord Est riaffiorano falsi miti su Felice Maniero

di Enrico Baldin

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TREVISO – Quella della mafia del Brenta e di Felice Maniero è una storia finita, che tuttavia viene narrata ancora oggi, a 22 anni di distanza dalla cattura e dal “pentimento” del boss. Per raccontare o per dire qualcosa di una storia, si sa, si possono usare diversi mezzi, si può partire da diversi punti di osservazione.

Deve avere pensato così l’inventore di una linea di abbigliamento che ha deciso di raffigurare il boss della mala del Brenta in una maglietta che può sembrare quasi “celebrativa”. Non una idea nuova a dire la verità. Già tre anni fa lo stesso brand raffigurò Felicetto in una maglia che assemblava il volto sorridente del criminale di Campolongo, il titolo di giornale di una celebre rapina al casinò veneziano, tre fori di proiettile e la scritta in veneto Fasso rapine.

Quella pubblicizzata oggi in un “pezzo da collezione” (come la definisce l’azienda nella sua pagina pubblicitaria su facebook) è la stessa maglietta del 2013 all’epoca ritirata dal commercio dopo le polemiche che aveva suscitato. Furono parenti di vittime della mala del Brenta a protestare, unitamente al sindaco del comune di Campolongo Maggiore in cui risiedeva Maniero e ad associazioni per la legalità. Ma fu anche lo stesso boss, libero dopo soli 17 anni di carcere e sotto altra identità, a protestare e minacciare querela contro chi usava il suo nome per far soldi. Oggi ritorna quella vecchia collezione. Con furore, perché il post di lancio su facebook ha ricevuto più di 1500 like e oltre 400 condivisioni, oltre a centinaia di commenti. Non sono pochi i compiaciuti dall’iniziativa commerciale che hanno commentato entusiasti l’idea di ritrarre il volto sorridente di Maniero: un mito, il nostro Robin Hood, rubano di più i politici, un genio, quando c’era lui si stava più sicuri; questi i toni dei commenti che si intervallano ad altri sdegnati. L’imprenditore che ha avuto questa trovata non è nuovo ne’ a magliette “discutibili”, ne’tantomeno a vicende discutibili, visto che meno di un anno fa venne arrestato con l’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti (la sua vicenda processuale è ancora in corso).

Ma a far pensare, più che l’ennesima trovata commerciale di pessimo gusto, è il fatto che si stia sviluppando una sorta di mitigazione storica su tutto ciò che è stata la cosiddetta mafia del Brenta. Non si tratta solo di attrazione verso quel “fascino criminale” che ha riguardato banditi come Vallanzasca, ma c’è ben altro, ovvero una ignoranza dilagante, con creazione di falsi miti sulla figura di Maniero, che di tanto in tanto tornano alla ribalta. Non solo magliette però: alcuni mesi fa un convegno sulla mala del Brenta – nell’ambito di una mostra sui serial killer – veniva anticipato da una pubblicizzazione ritenuta da molti “stucchevole”. Pure alcuni aspetti del film “Faccia d’angelo” che vedeva l’interpretazione di Elio Germano come protagonista hanno destato forti critiche. Lo stesso Felice Maniero non è mai completamente scomparso dalle scene non mancando di intervenire, con piglio piuttosto arrogante per giunta, su questioni che riguardano o che hanno riguardato la sua figura che sporadicamente riemergono.

La sensazione che si ha è che oggi si stia perdendo la memoria, da coltivare anche se riguarda “solo” la banda di Maniero. La storia della mala del Brenta infatti va ben oltre le rapine alle gioiellerie, alle ville e ai portavalori. La storia della mala del Brenta è anche e soprattutto la storia di omicidi brutali ed efferati, di sequestri di persona ed estorsioni, dello spaccio di stupefacenti che portò i nebbiosi territori tra la bassa padovana ed il veneziano ad avere un numero di tossicodipendenti che era il triplo della media nazionale. Per non parlare del traffico di armi con la vicina Croazia del criminale di guerra Tudjman che in quel tempo entrava in una guerra civile massacrante, o del totale controllo delle bische e i casinò che andavano dalla Slovenia a Modena. Il tutto regolando ogni rapporto con minacce, sangue e omertà, oltre che col placet compiaciuto anche di uomini dello stato, vere e proprie spie che Maniero aveva corrotto tra le forze dell’ordine per farsi anticipare le mosse dei magistrati.

La storia della mafia del Brenta (in sede processuale è stata ritenuta proprio una “mafia”) non è quella di qualche rapina spettacolare o di due evasioni coi fuochi d’artificio. E neppure quella di un bandito sorridente, colto o capace di galanterie col gentil sesso che, in qualche modo, può pure affascinare. Queste sono storie romanzate nate su falsi miti: la mafia del Brenta era ben altro, Felice Maniero era ben altro, per quanto qualcuno lo voglia far assomigliare ad una specie di Arsenio Lupin.

I proventi delle sue attività criminali lo portarono ad essere uno degli uomini più ricchi d’Italia, e con quel denaro era in grado di comprare agenti di polizia, secondini che gli favorissero evasioni, donne che condividessero la sua esistenza da criminale latitante. A parlare del presunto fascino di Maniero erano i falsi miti che accompagnano la sua figura, perché non c’è revisionismo storico che non sia fondato sulle bugie: sono i suoi compagni della mala a dire che non era uno “sciupa femmine”, ma è anche una delle sue prime condanne in sede giudiziaria, ovvero tre anni di carcere per aver tentato di violentare due turiste tedesche. Era falso anche il fatto che il Maniero nella sua faraonica villa con piscina e campo da tennis ospitasse i bambini del paese come fosse una specie di benefattore, ed era falso anche il fatto che Maniero fosse colto (furbo sì, colto no), a riprova basti leggere le lettere dense di errori grammaticali che scrisse al questore Francesco Zonno quando iniziò a pentirsi.

Sarebbe bello, una volta per tutte, farla finita con la storia raccontata attraverso false narrazioni “mitiche” o attraverso un improbabile fascino bad boy. E sarebbe ora di ricordare quelle vicende collegandole alla criminalità di oggi che, come quella dell’epoca, non guarda in faccia nessuno e non trascura alcun settore di redditività. Perché si può far ammalare un territorio attraverso fiumi di eroina oppure, come di più attuale consuetudine, seppellendoci rifiuti tossici. Si può rapinare con kalashnikov e passamontagna oppure attraverso compiaciute connivenze a colletto bianco nei posti che contano. Si può fare affari coi casinò oppure facendo incetta di appalti pubblici. Si può riciclare denaro sporco attraverso una imprenditoria asservita: ieri come oggi. E se è così non c’è niente di meglio di un dibattito che scarica l’odio collettivo verso ladri di polli o incolpevoli cercatori di fortuna, mitigando le colpe dei veri ladri, passati o attuali che siano, che poi si trovano immortalati nelle magliette.

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