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La sinistra italiana e il Venezuela

Il mistero di una manifestazione sospesa dei “veri” democratici per il Venezuela e il bisogno di una discussione senza reticenze su ciò che accade in America Latina

di Antonio Moscato

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Ho tardato a scrivere di nuovo sul triste tramonto di alcune delle esperienze latinoamericane che avevamo seguito tutti con interesse e speranza. Le ragioni sono diverse: prima di tutto l’amarezza per un esito non inevitabile; la mia stanchezza fisica dovuta a cure a cui forse avrei fatto meglio a rinunciare; il timore che ormai ci sia solo da scrivere la cronaca delle ultime battute, su cui ci sono altri più tempestivi strumenti informativi, mentre sul sito avevamo già fornito non pochi elementi di riflessione dando la parola soprattutto a militanti di quei paesi.

Basta ricordarne alcuni dei più recenti: Le ragioni del riflusso dei governi “progressisti” in America latina, o Il progressismo latinoamericano di fronte ai propri limitiBrasile. Un colpo al cuore della sinistraStefanoni: Bilancio del referendum in Bolivia, e l’ampio saggio di un marxista non latinoamericano, ma profondo conoscitore della realtà di quel continente, Perry Anderson sulla crisi in Brasile [1]. Ma sul sito nella cartella America Latina di Attualità e polemiche) ci sono oltre 300 articoli dello stesso genere, e altri saggi o stralci da miei libri sono nella sezione L’America Latina e Cuba dei GRANDI NODI DEL NOVECENTO.

Perché allora mi sono deciso a scrivere di nuovo? La spinta è stata un comunicato firmato da decine di organizzazioni (ma le principali erano la Rete Caracas Chiama, l’USB, la Rete dei Comunisti e Rifondazione Comunista) che presentavano la crisi venezuelana come quella brasiliana esclusivamente come frutto di un “tremendo attacco delle oligarchie finanziarie”, che sarebbe all’origine di tutte le recenti vicende, che hanno invece diverse cause interne a ciascun paese. Ero abbastanza indignato dalla presenza di Rifondazione Comunista in quel cartello, ma cercando di scoprire in rete se almeno qualcuno si era dissociato, ho scoperto invece che un gran numero delle organizzazioni “campiste” che avevano promosso la manifestazione l’avevano poi sospesa “come segno di rispetto e cordoglio per Mauro Monciatti, dipendente del Consolato italiano a Caracas, ritrovato morto, in circostanze ancora da chiarire, nella sua abitazione nel quartiere di Altamira nella giornata di ieri”. Singolare spiegazione. Dall’elenco lunghissimo di chi aveva sospeso la manifestazione mancava però Rifondazione, che peraltro non ha dato notizia del suo atteggiamento in proposito nei successivi bollettini online della Direzione. Mentre sul manifesto è apparsa due giorni dopo un “avviso a pagamento”, che dava per avvenuta la manifestazione, a cui avrebbero partecipato “tutti i democratici, quelli veri”. Quali sarebbero i falsi? E cosa è successo? Probabilmente c’è stata una prima discussione che ha messo in forse la tesi di fondo di tutti i campisti, cioè l’innocenza assoluta dei governanti, vittime di complotti e anzi di un vero “golpe”. Se la discussione c’è stata, è stata però segretata attribuendo la sospensione della mobilitazione al poco verosimile lutto per la morte di “un nostro connazionale” per cause probabilmente non politiche e non eccezionali in un paese con uno dei tassi di criminalità più alti al mondo.

È ora invece di affrontare senza reticenze il dibattito su quel che accade in America Latina, con la presenza (ovvia) in ciascun paese delle forze che si richiamano all’imperialismo statunitense ma con dinamiche e specifiche cause diverse da paese a paese. In Brasile l’adattamento del PT a un sistema politico e parlamentare strutturalmente corrotto, era accettato dall’elettorato finché, nonostante l’arricchimento di politici e grandi capitalisti, restavano i margini per una distribuzione di bonos che non eliminavano la miseria ma la attenuavano (più o meno come pensa di fare Renzi a colpi di 80 euro). Ma quando sono esplosi gli scandali delle enormi tangenti pagate da Petrobras, Odebrecht, Vale ecc. (che nessuno in Brasile ha negato), e sono emerse le dimensioni degli sprechi per mondiali e olimpiadi, mentre si riducevano salari e occupazione, la destra filoimperialista ha approfittato per sferrare il suo colpo, approfittando della riduzione del consenso per il governo. Il fatto che molti di loro fossero perfino più corrotti della maggioranza dei sostenitori del governo di Dilma non li ha fermati, ma forse potrà permettere una controffensiva adeguata. Comunque non c’è stato un golpe, come ripetono quelli che non vogliono riflettere sugli errori che hanno indebolito il governo, c’è stata semplicemente una abile utilizzazione di un sistema parlamentare corrotto, che era lo stesso su cui anche Lula si era appoggiato per anni, risolvendo i problemi con l’acquisto di singoli parlamentari o di interi partiti. Ilmeccanismo è stato ben spiegato nel saggio Perry Anderson sulla crisi in Brasile [1] Ma in Brasile la partita non è chiusa, anche perché la stessa Dilma Rousseff ha mantenuto i nervi calmi e punta su nuove elezioni, mentre si moltiplicano iniziative di lavoratori per la difesa non solo della presidente ma anche dei propri diritti.

Della Bolivia ha scritto chiaramente Pablo Stefanoni, e la situazione provocata dall’errore di valutazione di Evo Morales non è catastrofica, mentre l’esito delle elezioni in Argentina non può essere attribuito in nessuna maniera a un golpe. È il Venezuela il punto più debole dello schieramento “progressista” e quello che potrebbe avere ripercussioni più gravi su Cuba, che rimarrebbe sola di fronte a un dubbio “amico” come gli Stati Uniti, tanto più pericoloso in assenza di contrappesi nel continente anche in caso di vittoria democratica.

Ma chi ha provocato la crisi attuale? Avevo seguito le elezioni dello scorso anno dando la parola ad esempio a Zibechi: Il Venezuela al bivio, e ai compagni locali (Venezuela, lo scossone visto da Marea Socialista) o di paesi vicini (Il Venezuela determina il futuro del ciclo progressista in America Latina). Ma bastava andare sul sito di Aporrea per verificare che anche i difensori incondizionati del governo ammettevano che c’erano gravi problemi di corruzione a molti livelli. Il fatto è che non dall’esterno è venuto l’attacco golpista, ma dalla perdita in pochi mesi di più di due milioni di voti, che hanno abbandonato Nicolás Maduro per la sua incapacità totale di padroneggiare la situazione economica mentre accettava l’inasprimento dello scontro con l’opposizione. Impossibile attribuire solo a fattori esterni un tasso di inflazione che si avvicina al 700% (anche se ufficialmente è “solo” al 250%). Nessun altro paese latinoamericano anche “progressista” è a questi livelli, perché nessuno è stato così incapace di bloccare una corruzione fondata su una decina di tassi di cambio diversi e la complicità dell’apparato statale.

I compagni che si presentano come i bolivariani italiani sorvolano su un piccolo particolare: l’opposizione (che anche io detesto, e che ho definito più volte rozza e trogloditica) ha conquistato una solida maggioranza parlamentare in elezioni che nessuno ha contestato. Proporre delle leggi non è una pretesa golpista, come pensa Geraldina Colotti, che riempie pagine intere del manifesto con amplificazioni acritiche delle rozze argomentazioni di Maduro: è quanto previsto dalla stessa costituzione proposta e poi successivamente modificata da Chávez, ed è quanto è praticato in tutti quei paesi in cui l’elezione del presidente e quella dell’Assemblea o parlamento non coincidono, e portano per un periodo più o meno breve a un dualismo di poteri: caso classico ma non unico gli Stati Uniti, anche ora con Obama che deve fare i conti con un congresso e un senato repubblicani. Non si può annullare ogni legge proposta dalla ex opposizione come fa Maduro, e non si può continuare ad accusarla di golpismo qualunque cosa faccia o dica, e a insultarla, definendo ogni suo membro come escuálido.

Per un certo periodo lo aveva fatto anche Chávez, e Fidel Castro lo aveva ammonito che se gli oppositori avevano il 45% non potevano essere tutti assoldati dalla CIA. Figuriamoci se hanno più del 56%!

Inoltre Maduro parla di golpe esterno manovrato dalla CIA e sostenuto dalla borghesia, ma nelle manifestazioni quotidiane o negli assalti ai supermercati non ci sono solo bianchissimi borghesi reazionari (che sono d’altra parte ben riforniti di ogni ben di dio nei loro “quartieri alti”), ma anche proletari e sottoproletari affamati e infuriati per la scandalosa incapacità del governo di fermare speculazioni, imboscamenti di generi alimentari, contrabbando. Maduro oscilla tra concessioni sostanziali ai grandi importatori (ad esempio aveva tentato di conciliarsi i favori di Lorenzo Mendoza, quasi monopolista delle bevande e degli alimentari) e minacce di ricorrere alle maniere forti e alle confische, mentre l’esercito sta a vedere e prende tempo, lasciando parlare tuttavia alcuni generali a riposo che si differenziano e offrono mediazioni.

Gli ultimi scontri di piazza sono indifendibili: la ex opposizione ha raccolto milioni di firme per chiedere un referendum revocatorio del presidente, in base a una norma costituzionale che era stata voluta proprio da Chávez, e a cui lui stesso si era sottoposto (vincendo il referendum). Non potendo disconoscere formalmente il diritto di raccogliere le firme, Maduro ha però inviato i moduli a un Consiglio Nazionale Elettorale interamente designato da lui per una verifica puntuale delle firme (e della trascrizione dei numeri dei documenti, ma anche delle impronte digitali, previste per una convalida successiva) non a campione ma individuale che potrà durare i mesi sufficienti per far scattare la norma costituzionale che assegnerebbe la supplenza al vicepresidente invece di ricorrere a nuove elezioni (come è previsto se la destituzione avviene nell’ultimo biennio in cui il presidente è in carica).

È questo che ha provocato nuove manifestazioni, con alcuni parlamentari eletti che si sono recati a protestare davanti al palazzo in cui risiede la commissione elettorale, dove sono stati bastonati e accusati di voler assaltare l’Ufficio. La stampa mainstream dei paesi imperialisti (anche europei) naturalmente pesca nel torbido, come faceva amplificando ogni manifestazione della crisi del cosiddetto “socialismo reale”, ma si può contrastarla senza cadere in una specie di negazionismo.

La lettura manichea di queste vicende fatta dall’area nostalgica dello stalinismo, che accetta oggi in toto la versione del governo venezuelano che nega ogni legittimità agli ex oppositori come se non avessero vinto regolari elezioni parlamentari, è pericolosa perché indebolisce ulteriormente, nel continente e in tutto il mondo, una sinistra già frammentata e incapace di darsi una strategia e un programma di lotta, costringendola a difendere l’indifendibile, come è già avvenuto con la Siria e l’Ucraina. Accettare passivamente una versione che nega ogni fondamento sia al risultato elettorale, sia alle proteste, e le attribuisce esclusivamente a un complotto esterno, si riallaccia alla negazione del carattere endogeno della crisi che ha travolto e fatto implodere l’URSS e il sistema di Stati satelliti fragili perché imposti solo con le armi e in base alla spartizione del mondo con l’imperialismo, ed è profondamente diseducativo e poco credibile (ma è lo schema utilizzato dalla Colotti, che fantastica di un ruolo di “«studenti» delle università private e organizzazioni di ispirazione «ucraina»”).

È stato il rifiuto di riflettere sulle cause del crollo a catena del sistema staliniano, pur preannunciato da anni, e della rapida conversione al capitalismo della maggior parte dei suoi leader che fino al giorno prima si proclamavano marxisti-leninisti, ad accelerare la crisi e la ghettizzazione di quanto rimane dei nostalgici di quel passato.

Per fortuna in America Latina, nonostante le preoccupanti sconfitte subite da molti governi “progressisti”, la partita non è chiusa. Anche in Venezuela (e a maggior ragione in Brasile e in Bolivia), nonostante gli arretramenti, c’è ancora un certo equilibrio tra le forze in campo dovuto al fatto che anche i due milioni di chavisti che hanno punito Maduro col non voto, sono legati alle idee e all’eredità della “rivoluzione bolivariana” e sanno bene cosa accadrebbe nel caso di un improvviso tracollo del regime. La destra, che rappresenta non la totalità ma certo una parte importante della coalizione che ha vinto le elezioni legislative, punta al ritorno puro e semplice a quel Venezuela “saudita” che Chávez aveva battuto. Il PSUV burocratizzato e lo Stato monopolizzato dalla “boliborghesia” e dai militari (non meno corrotti) hanno disorientato e smobilitato negli ultimi anni parte delle forze che avevano sconfitto nelle strade il (vero) golpe contro Chávez del 2002. Ma ci sono ancora in Venezuela, fuori e dentro il PSUV, forze capaci di partire dall’analisi degli errori fatti per organizzare una controffensiva. È su di loro che bisogna puntare, invece di sperare nei trucchi dell’apparato burocratico del Consiglio Nazionale Elettorale per impedire il referendum, che possono invece innescare una vera guerra civile dagli esiti imprevedibili.

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