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La lunga e tortuosa strada per la Brexit

E adesso che cosa succederà? Come si fa a uscire dall’Unione Europea? Che dice il Trattato di Lisbona? Quanti anni serviranno? Chi ne trarrà vantaggio? Sarà come per la Norvegia o la Svizzera?

di Checchino Antonini

VOLARE, AH AH !2

Terra incognita. È quella che si apre dopo il voto di ieri in Gran Bretagna con la vittoria del ‘Leave’. Prima del Trattato di Lisbona, non era nemmeno prevista la possibilità di uscita dall’Ue. Ora è contemplata dall’articolo 50, finora mai utilizzato. La sola certezza è che sarà un processo lungo e complesso che sarà deteerminato dai rapporti di forza tra le nazioni e le rispettive borghesie mentre, dal punto di vista dei contenuti sociali, non sembra che la Brexit possa avere influenza sui rapporti di forza tra le classi. E’ una questioni di rapporti tra le classi. Secondo l’estrema sinistra inglese favorevole al Remain s’è trattato di un referendum «nato dalla pressione dell’estrema destra, guidata da sentimenti anti-immigrazione e alimentata dal razzismo. Questa è stata la campagna nazionale più reazionaria nella storia politica britannica».

Tutti gli Stati membri dell’Unione Europea hanno il diritto di abbandonarla, come ha deciso di fare la Gran Bretagna con il referendum di ieri. Finora non era mai successo, anche se la Groenlandia, membro autonomo del Regno di Danimarca, ha lasciato la Comunità Economica Europea, predecessore dell’Ue, nel 1985, dopo aver ottenuto l’autogoverno, in disaccordo con la regolamentazione Ue in materia di pesca e con il bando dei prodotti in pelle di foca. Anche l’Algeria è uscita nel 1962, dopo essersi liberata dal dominio coloniale francese. Nel 1975 il Regno Unito tenne un altro referendum per decidere se ritirarsi dalla Cee, in cui era entrata due anni prima sotto il governo Tory guidato da Edward Heath: allora vinse il fronte del ‘Remain’. A regolare la materia è l’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea, una delle due parti del Trattato di Lisbona del 2007, quello che ha creato l’Ue, sostituendo il trattato costituzionale bocciato dagli elettori francesi e olandesi nel 2005. «Qualsiasi Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione», recita il primo comma. «Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio Europeo (la cui riunione è prevista il 28 e 29 giugno a Bruxelles, appositamente rinviata per fare in modo di tenerlo dopo il referendum britannico, ndr). Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio Europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Ue».

«L’accordo – prevede ancora il trattato – è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata, previa approvazione al Parlamento Europeo. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica, salvo che il Consiglio Europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine». I due anni valgono come limite per stabilire le modalità di recesso dall’Ue, e non per rinegoziare i rapporti con l’Unione, cosa questa che potrebbe richiedere anni (le stime variano da cinque fino a nove-dieci). Naturalmente, lo Stato che recede «non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio Europeo e del Consiglio che lo riguardano». Potrebbe durare fino a una decina di anni se si considerano anche i rapporti post-Brexit da rinegoziare tra Gb e Ue: il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, nei giorni precedenti al referendum ha parlato di «7 anni almeno», il governo britannico di «un decennio o più». Tutto dovrà essere rinegoziato per i nuovi rapporti, che potrebbero essere improntati a quelli dei Paesi Efta come Norvegia e Islanda: dagli accordi commerciali ai programmi di ricerca e per le pmi, dall’Erasmus alle norme di conformità dei prodotti. Le discussioni potrebbero andare in parallelo a quelle per l’exit, ma difficilmente si potrebbero chiudere in due anni. Senza contare il ‘phasing out’ dei programmi Ue in corso, e l’annosa questione dei funzionari e dei traduttori britannici Ue.

«Non ci sarà vuoto legale» ha assicurato Tusk, precisando che «fino all’uscita formale della Gran Bretagna la legge Ue resta valida nel Regno Unito, ciò significa diritti e doveri». Londra continuerà a essere membro a tutti gli effetti dell’Ue, quindi a votare e prendere decisioni ma sarà esclusa da quelle sulla ‘Brexit’.

La ‘secessionè dall’Ue è definitiva, tanto che, se lo Stato ex Ue dovesse decidere di aderire di nuovo, dovrebbe ripercorrere tutta la procedura prevista dall’articolo 49: il Paese fa domanda, il Parlamento Europeo e i Parlamenti nazionali dell’Ue ne vengono informati; lo Stato trasmette domanda al Consiglio, «che si pronuncia all’unanimità, previa consultazione della Commissione e previa approvazione del Parlamento Europeo, che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono». L’accordo di adesione deve poi essere ratificato da tutti gli Stati membri, secondo le rispettive norme costituzionali.

Il ‘modello Norvegia‘ è quello che è stato spesso invocato dai promotori della Brexit per sostenere che l’uscita dall’Unione Europea avrebbe portato alla Gran Bretagna tutti i vantaggi dell’adesione alla Ue, eliminando il fastidio di dover cedere la propria sovranità alla burocrazia di Bruxelles. Ma la realtà dei fatti non è così rosea come sembra e a dirlo, già durante la campagna referendaria, non è stato il fronte ‘Remain’, bensì gli stessi norvegesi. La Norvegia, che nel proprio referendum del 1994 rifiutò (di poco) l’adesione all’Unione Europea, fin da allora fa parte dello Spazio economico europeo (See). L’organismo, al quale aderiscono anche Islanda e Liechtenstein, ha sì accesso al mercato unico della Ue, ma deve sottostare a gran parte delle sue regole, e non ha voce in capitolo nei processi decisionali. «Certo, facciamo parte del mercato unico, ma siamo anche soggetti a leggi che non possiamo influenzare», ha ricordato giorni fa al Washington Post Kristin Skogen Lund, direttore generale della Confindustria norvegese. «Credo ci sia un motivo perché i membri dello Spazio economico europeo sono tutti Paesi piccoli. Siamo abituati al fatto che a decidere siano i Paesi più grandi. Ogni volta che parlo con i britannici di questa cosa e spiego come funziona, mi rispondono, ‘non credo potrebbe funzionare per la Gran Bretagna’», ha detto la premier norvegese, Erna Solberg, al Post. Il fatto che per Oslo il rapporto con la Ue abbia funzionato lo stesso è dovuto soprattutto allo straordinario andamento dell’economia norvegese, trainata per decenni dai proventi del petrolio del Mare del Nord. Quasi nulla delle continue crisi europee di questi anni è stato avvertito nel Paese nordico. Inoltre, spiega Jan Erik Grindheim, a capo di un gruppo che fa campagna per l’ingresso della Norvegia nella Ue, «qualsiasi motivo di malcontento dell’opinione pubblica per la mancanza di voce in capitolo della Norvegia negli affari della Ue è stato messo a tacere dal fatto che le politiche Ue generalmente coincidono con gli interessi dei norvegesi». Anche questo è uno dei motivi per cui i norvegesi, stando ai sondaggi, preferiscono confermare l’attuale status quo, invece di una piena adesione alla Ue.

Schauble ha già chiarito, chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. Quello che i promotori della Brexit durante la campagna non hanno spiegato del tutto, inoltre, è che il modello norvegese, pur garantendo l’accesso al mercato unico, prevede anche l’accettazione di alcuni dei principi base della Ue, tra i quali la libertà di movimento delle persone. Proprio uno dei principi più detestati dagli euroscettici britannici, che durante la campagna referendaria hanno continuato a soffiare sul fuoco dell’allarme immigrazione per convincere gli elettori a votare per la Brexit. Non è poi scontato, ora che nelle urne ha prevalso l’opzione ‘Leave’, che Bruxelles si mostri così generosa nei confronti di Londra, replicando in chiave britannica il modello norvegese. Anzi, per scongiurare eventuali tentativi di altri Paesi, la Ue, nei due anni di negoziati che serviranno a definire la pratica di divorzio con la Gran Bretagna, potrebbe probabilmente mostrarsi piuttosto severa. Lo ha già fatto capire prima del voto il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, annunciando il mese scorso che «i disertori non saranno riaccolti a braccia aperte». Non bastasse, nei giorni scorsi il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble, in un’intervista allo Spiegel, ha escluso qualsiasi possibilità per i britannici di accesso al mercato unico, come invece sperano l’ex sindaco di Londra Boris Johnson e con lui tutto il fronte della Brexit.

C’è poi l’opzione del ‘modello Svizzera’. La Ue nel corso degli anni ha concluso con la Confederazione elvetica, che non ha voluto aderire allo Spazio economico europeo, una serie di accordi per regolare rapporti che vanno dall’immigrazione al commercio. La Svizzera è inoltre un membro associato dell’Area Schengen e aderisce alle regole di Dublino sul diritto d’asilo. Dal 1999, esiste tra Ue e Svizzera un accordo di libera circolazione delle persone, proprio uno dei punti più contestati dai promotori della Brexit. Nel 2014, gli svizzeri in un referendum hanno contestato quell’accordo, decidendo di imporre dei limiti all’immigrazione, anche per i cittadini della Ue. La questione è ora oggetto di un complicato negoziato con Bruxelles.

1 COMMENTO

  1. Il 6 aprile 2016 gli olandesi erano chiamati a esprimersi con un referendum sulla ratifica da parte del governo dell’accordo di associazione tra Unione europea e Ucraina. Il no all’accordo ha ottenuto il 61,1 per cento dei voti; il sì il 38,1 per cento. L’affluenza è stata del 32,2 per cento, appena superiore al quorum del 30 per cento richiesto nel paese per i referendum consultivi.
    In Italia qualcuno ci ha chiesto, a questo proposito, qualcosa?

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