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HomecultureSandro Medici in crociera coi rivoluzionari mancati

Sandro Medici in crociera coi rivoluzionari mancati

Che cosa avvenne sul transatlantico russo che nel ’78 portava i delegati italiani al festival mondiale della gioventù a Cuba? Un assaggio di “Demasiado”, il nuovo romanzo di Sandro Medici pubblicato da DeriveApprodi

di Sandro Medici

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Struggente l’attesa di chi rincorre una meta sfuggente. Più che

sfuggente, forse sfuggita, fuggita. Spostata, slittata, scivolata,

sprofondata in qualche abisso oceanico.

Siccome non ce la facevamo più, affioravano dubbi insensati,

peraltro inaciditi dai rigurgiti di una sofferta digestione notturna.

Avremmo dovuto esserci. L’approdo era stato previsto di

lì a poco, in mattinata, annunciato come imminente. Eppure

non era così. Niente, non eravamo ancora arrivati.

Ma che palle…

Forse avevano sbagliato rotta. O ci avevano portato chissà

dove. Dopo quell’iradiddio che era successo a bordo, per rappresaglia

era stato deciso di scaricarci lontano, di abbandonarci su

un’isola deserta a mangiarci tra di noi.

E se ci avessero semplicemente ingannato? Non ci sarebbe

stato nessun approdo. Non ci avrebbero portato da nessuna

parte, ci avrebbero lasciato lì nel nulla, nel gorgo dell’aria stantía,

in mezzo alle nuvole morte, sul pelo dell’acqua appassita.

Le stavamo pensando tutte; ci si chiedeva anche di peggio.

Ma per quella reticenza che a volte aiuta a placare l’ansia e

anche a non rischiare di apparire ridicoli, riuscimmo a contenere

lo spavento che i nostri timori più segreti si divertivano ad

alimentare.

Certo è che dopo seimila miglia in mezzo al mare, ora accarezzati,

ora tormentati dai venti oceanici. Dopo aver attraversato

tempeste e bonacce, ingoiato bolle d’aria incandescenti e respirato

infreddate repentine, spazzolati dai cloruri della salsedine

d’altura, cullati da serate profumate. Infoiati, impastoiati,

estenuati come una fisarmonica all’ultimo respiro.

Dopo giorni e giorni e anche notti, asserragliati in una convivenza

coatta.

Dopo trentatré riunioni, undici assemblee plenarie, una

ventina di incontri ristretti, un gran numero di stancanti chiacchiericci,

seriosi confronti e discussioni concitate, oltre a cinque

corsi di formazione e approfondimento, per lo più trascurati

e disertati. Dopo svariati ingaggi senza regole, maneschi

corpo a corpo, confronti a brutto muso e attacchi a tradimento,

micidiali dai-e-vai ed entrate a gamba tesa, tre cortei interni,

una mezza dozzina di invasioni di campo, varie occupazioni di

sale, palcoscenici, piscine, cucine, lavanderie, spogliatoi, infermerie,

gabinetti e uno, anzi due assalti alla presidenza.

Dopo una dozzina di feste notturne, tre corsi di ballo latino,

samba, salsa e tango, più diverse esibizioni di rock acrobatico,

innumerevoli quanto infauste partecipazioni a eventi o spettacoli,

con decine di prove arrangiate e ansimanti. Dopo reiterate

improvvisazioni musicali eseguite in ogni dove e senza ritegno,

canti strappati e sguaiati, archi allentati, fiati sfiatati, chitarre

scordate e percussioni scartavetrate.

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Dopo un centinaio, almeno, di animose partite di calcetto,

pallavolo, pallacanestro e calcio-tennis, alcune delle quali finite

in rissa, centinaia di sudatissimi tornei di ping-pong, di chiassosi

quadrangolari di briscola, briscola chiamata, tresette e scopone,

noiosissima scala quaranta e più vivace e sbrigativo ramino,

una notevole quantità di poker assatanati e clandestini, sanguinosi

duelli a morra, morra cinese, scassaquindici e perfino

alcune penose tenzoni a tre-tre-giù-giù.

Dopo un imprecisato ma ragguardevole numero di canne,

spinelli, paglie, ciospe, spingarde e soffia-soffia di varia caratura

e dimensione, fumate a frequenze variabili, in solitudine o in

moltitudine, segretamente o sfacciatamente.

Dopo migliaia di accoppiamenti e relativi scoppiamenti,

questi ultimi notevolmente più faticosi e impegnativi, di ingombranti

innamoramenti, ma di quelli che saziano e straziano,

di pomiciate improvvisate che per fortuna lì si esaurivano,

anche se non sempre, di svariate movimentazioni carnali e carnose

arrampicate, sia spericolate che rigorose, approssimate e

improbabili o con metodi più collaudati, in scioltezza o acrobatiche,

su cui eleganza vuole si omettano ulteriori particolari.

Ecco, dopo tutta questa gigantesca pappareale, in un’attesa

consumata nella più totale frenesia, in un delirio stordente, rincorrendo

albe e tramonti che non erano quasi mai quelli previsti.

Dopo insomma questo straripante dispiego di fiati, sudori,

nervi, pulsioni, umori, oltre a impudichi fluidi, ebbene, dopo

tutto ciò, il dubbio che avessimo smarrito la meta o che ce l’avessero

segretamente rubata o che proprio non ci fosse alcuna

meta, credetemi, non sembrava così astruso.

Eravamo arrivati. Sì, eravamo arrivati: ma dove? La sirena

trombeggiava a distesa. E allora tutti a guardare dai ponti. A

guardare non si sapeva dove, dal ponte di qua, dal ponte di là,

anche a prua, e perfino a poppa, dove si vedeva solo un’orrida,

putrida schiumaglia centrifugata. Chi già tutto vestito, calzato,

sbarbato e pettinato; chi ancora in mutande e a piedi nudi, caccoloso,

scricchiolante e non del tutto presente a se stesso. Chi

già lavata, acconciata, truccata e depilata; chi scarmigliata, intorpidita

e beatamente ignara.

Nessuno vedeva quel che doveva esserci. Né terra né mare

né cielo. Completamente avvolti da una nuvola tiepida che

smorzava lo sguardo, a ciucciolare l’odore acido e greve di alghe

ammassate e moribonde, accompagnati dal brontolío di motori

ormai stanchi.

Forse era appena l’alba, oppure già mattino, ma il tempo si

era come spostato da un’altra parte, sospeso, sfinito come tutti

noi, anch’esso straniato e appesantito, in attesa che qualcuno,

qualcosa riaccendesse il suo battito, riavviasse il suo cammino.

C’era però un gran gracchiare di gabbiani: di gabbiani e di

chissà cos’altro, forse cormorani, pellicani o altri misteriosi uccelli.

A tratti spuntavano da quell’aria spugnosa e li vedevamo

volare bassi e lenti, sbiaditi e sporchi, sicuramente affamati,

sgraziati in quell’ondeggiare senza vento. Sbraitavano striduli e

stridenti, e non era piacevole sentirli. Ma erano gli unici a dire

qualcosa. Gli altri, tutti noi, respiravamo in affanno e in silenzio.

Con gli occhi che si spostavano come un compasso, nell’attesa

di scorgere un’unghia di terra, una linea scura, solo appena

più scura del biancore opaco e imbrunito che tutto circondava.

L’antica rotta per quelle Indie che più tardi sarebbero diventate

fatalmente Americhe era stata completata. Ma l’approdo

ancora sfuggiva. Chissà, forse non gradiva essere raggiunto, e

per render vano ogni inseguimento sembrava preferisse spostarsi

lungo un Occidente mobile, proprio dove il Tropico ormai

s’esaurisce e l’Equatore prova ad affacciarsi.

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Avevamo viaggiato circondati da orizzonti sempre uguali e

lineari, che finivano e ricominciavano ma sempre lì restavano,

orizzonti che s’infiammavano al sole del mattino per poi oscurarsi

fino a perdersi nel buio mare di notte, in un’altalena che

aveva dondolato sopra e sotto il pianeta.

Una vertigine orbitale ci aveva totalmente risucchiato. Pulsava

nelle orecchie, sospirava nei polmoni e poi nuotava nelle

vene, dalla nuca alle caviglie. Una vibrazione spaesante che

aveva confuso ogni riferimento, spezzato ogni coordinata. E lasciava

senza risposta le mille domande che speravo fossero rimaste

dove le avevo invano accantonate. E che invece mi avevano

accompagnato, ancora sospese e inevase, inesorabilmente

riemerse in quel chiarore appiccicoso e puzzolente.

Perché lì, tra sargassi, squali e coralli? Perché proprio allora

e non prima o non dopo? Perché io, noi e non qualcun altro,

qualcun’altra? Perché le trombe non squillano e le grancasse

non tuonano, le bandiere non sventolano, i canti non inneggiano,

gli sguardi non brillano, i pugni non si levano? E insomma

cos’è mai questa storia che attraversa l’Oceano e da un continente

all’altro cerca senso e ragioni, senza tuttavia trovarne, se non

in qualche confuso accenno?

Ma siamo sicuri che sia davvero necessario dire e fare cose

che abbiano sempre un senso indiscutibile e ferree ragioni?

Non si può seguire un desiderio vago, un impulso che sia, un riflesso

istintivo, una volontà semilavorata, un sentimento spensierato?

Non ci si può abbandonare a una suggestione, a un’emozione,

a uno svolazzo segreto? È proprio impossibile lasciar

scorrere, lasciar andare, lasciar volare, lasciare che sia, senza

dover obbligatoriamente ragionare, argomentare, spiegare e allinearsi

a una coerenza peraltro esile e vacillante, a volte forzosa

e strumentale, oltreché sovente discutibile?

Millenni di quel pensiero critico che aveva fatto dubitare il

mondo, nel bene e nel male, più nel male che nel bene, sembravano

concentrarsi in quell’unico punto galleggiante, a ventidue

gradi a nord dell’equatore e settantanove a ovest dal meridiano

zero.

Mi sentivo sulle spalle tonnellate di contraddizioni politiche,

l’eterno sinusoide dei cicli della storia, tra progressi e regressi,

tra oppressioni e rivolte, avanzate e ripiegamenti, rivoluzioni

e guerre. L’intero campionario dell’evolversi delle civiltà,

comprensivo delle contorsioni del materialismo dialettico, che

in quanto dialettico ognuno se lo piega e se lo spiega come preferisce.

Perseguitato, nell’ordine: dal martirio di Spartaco crocifisso,

innanzitutto, e poi, a seguire, dall’inconcludenza dei Ciompi e

da quel lazzarone di Masaniello, dal pugnale girondino dell’infida

Charlotte, da Pisacane e Garibaldi, dalla Repubblica Romana

e dalla Comune di Parigi, dalla salma di Lenin, dal cranio sfondato

di Trotskij, dal rinnegato Kautski e l’infame Noske, dai

Quaderni di Gramsci e gli intrighi di Togliatti, dai fratelli Cervi e

il partigiano Johnny, da Martin Luther King e Malcolm X, da Susanna

e Giovanna, che erano le più belle del collettivo di Architettura,

dall’inguardabile pizzetto di Ho Chi Min, dallo sguardo

soffice di Nelson Mandela, dal sessantotto e dal settantasette

ma non dall’ottantanove, che per fortuna era ancora lontano.

Per non parlare poi di Freud e Joyce, della carrozzina rotolante

di Ejsenštejn, del Bauhaus e del razionalismo, di Brecht e

Sartre, di Orwell, Bradbury e Clarke, di Salinger e Bukowski,

dei quadrilateri di Mondrian e le scatolette di Wharol, di John

Fante e Jack Kerouac, di Kubrik e di Fellini, dei morti di Reggio

Emilia e i treni per Reggio Calabria, della bianca gonna al vento

di Marylin Monroe, dei cantautori genovesi e quelli romani, di

Pasolini «il civile silenzio di uomini rimasti uomini» e di Pavese

«verrà la morte e avrà i tuoi occhi», del matto sulla collina

dei Beatles e del diciannovesimo esaurimento nervoso dei Rolling

Stones.

In compenso, mi lasciavano alquanto indifferente le spinose

vicende di Caino e Abele, Ettore e Achille, Romolo e Remo,

Bartali e Coppi, Borg e Panatta, Mazzola e Rivera, Arturo e Zoe.

Restavo tuttavia alquanto indispettito per il mistero del furto

della chitarra elettrica di Jimi Hendrix dopo il concerto del Teatro

Brancaccio a Roma. Chi l’aveva rubata e, soprattutto, dov’era

andata a finire? Anni e anni di vane ricerche tra gli spacciatori di

rock estremo e i ricettatori di modernariato nostalgico. Se chi

sta leggendo dovesse saperne qualcosa, è invitato a rivolgersi

cortesemente all’editore o direttamente all’autore, ma con rispettosa

cautela.

Al di là della Fender biancolatte con effetto eco-potenziato,

che rischia di distrarre e fuorviare, tutti quegli interrogativi,

quelle inquietudini, quei turbamenti restavano impietosamente

senza risposta e non offrivano alcuna certezza. Nemmeno

quella di ritrovarsi con la terra sotto i piedi.

Ma la terra infine affiorò. Appena accennata, poco più che

un filo un po’ più scuro, un graffio grigio in mezzo al nulla, un

lievissimo sbaffo che prima non c’era e che finalmente cominciava

a scorgersi.

L’entusiasmo di grida, fischi e canti pacchiani, applausi,

sbracciate e salti scomposti. Ancora l’urlo della sirena, in una

rombante pernacchia in fa maggiore. Con il querulo accompagnamento

degli uccellacci al nostro seguito, che però cominciarono

a volare più allegri e leggeri.

Anche l’ombra nebulosa che ci aveva imprigionato a quel

punto cominciò ad arrendersi, diradandosi lentamente e lasciando

che i colori illuminassero l’aria. L’azzurro s’accendeva

gradualmente, un verde via via sempre più nitido, il profilo di

pietra della città, ancora velato ma sempre più riconoscibile. La

terra si avvicinava e la nuvola di vapore puzzolente restava

dov’era, barriera di confine tra il grande mare e l’isola agognata.

L’avevamo superata, eravamo passati. Ma solo dopo aver consumato

quel penoso tratto dell’ultimo, pensoso transito.

Fu un sollievo. Forse potevamo cominciare a essere contenti.

Nessun dirottamento, nessuna deviazione, nessun inganno,

eravamo davvero arrivati a L’Avana.

«Finalmente a Cuba, non ce la facevo più» – sussurrò il Carlino,

martello modenese che schiacciava qualsiasi cosa gli capitasse

nei pressi, palle, pallette, scarpe, cappelli, patate, banane,

cetrioli e pagnottelle.

Guardai il fazzoletto rosso che aveva al collo e precipitati in

una felice disperazione. Riuscii perfino a sorridergli.

L’Avana dunque.

In un’esercitazione che potremmo definire inutilmente esibita,

elenchiamo di seguito le più ricorrenti reattività al solo ticchettare

delle sue tre agili a in successione fonetica o in estensione

grafica.

Per le categorie più immediate e lineari, siamo ai Caraibi, il

sole, il mare e le palme al vento, i sigari e il rum (che là si chia-

mano puros e ron), il mambo, la rumba e la salsa, ananas, noci di

cocco, mango e patate dolci, forse le aragoste, sicuramente la

generosa avvenenza delle signore cubane.

Per i politicamente consapevoli tardo-ossessivi, difficile

sfuggire al richiamo della rivoluzione di Che Guevara e Fidel

Castro, il Granma e la Sierra Maestra, Cuba libre e frijoles, la Baia

dei porci e la crisi dei missili, Kruscev, Kennedy e Papa Giovanni,

l’embargo e la prigione di Guantanamo, e volendo, in uno

dei rari casi di rilassamento ideologico, anche Guantanamera,

ma cantata in forme partecipative, battendo ritmicamente le

mani tutti insieme.

Per le soggettività più rarefatte e volubili, inclini a uno studiato

disincanto, lo scenario diventa stucchevolmente allusivo:

si va dal Mojito alle vecchie Cadillac, ancheggianti e rossofuoco,

da Hemingway al Tropicana, dal Barocco coloniale alla Playa del

Este, dal son al bolero e all’habanera, da Tito Puente a Perez

Prado a Chucho Valdés, da Omara Portuondo e Compay Segundo

agli Orishas e a Los 4 e Gente de Zona per i più aggiornati,

dalle fragole con il cioccolato alla generazione ipsilon.

Qualsivoglia sia l’interpretazione o la percezione, eravamo

dunque affacciati sul lungomare di L’Avana, che là chiamano

Malecón. E stavamo per sbarcare.

Era uno dei primi giorni dell’agosto del 1978.

La nostra storia comincia novemila chilometri prima. In un

altro mare, qui da noi in Italia, a Genova. In una mattinata di luglio

strapazzata da un vento accaldato e sabbioso, un potente

scirocco che era partito dalle coste africane e aveva sorvolato

tutte le isole del Tirreno e aveva ancora voglia di soffiare. E lì sul

molo numero due, dove pian piano stavano arrivando los delegados

italianos, tirava ancora di più, spettinando le onde, spruzzando

l’incolpevole pontile.

Anche la grande nave, la formidabile motonave Sobinov, un

po’ caracollava anch’essa, sotto la spinta del vento e gli schiaffi

delle onde. Per quanto voluminosa e ancorata alla banchina,

oscillava e rioscillava. Il suo profilo nero s’abbassava appena e

poi risaliva. E l’acqua del porto schioccava e mugolava ai suoi

fianchi. Sembrava impaziente di slacciarsi da terra e andarsene

finalmente in mare aperto. E aveva ragione, partire, partirò, partir

bisogna.

Anche noi ci eravamo ormai spazientiti ad aspettare, sudando

sul molo, con le magliette e le camicie che il vento ci appiccicava

addosso, tra zaini e valigie, buste e fagotti, borse e

borsette. Sotto quel sole genovese che saliva lento come il

fumo di Guccini.

A qualche metro ci aspettava la scala che s’arrampicava sulla

fiancata della paratía. Sotto la quale formicolava una piccola

folla che vociava e sbraitava. Un viavai di poliziotti e marinai, capidelegazione

e accompagnatori, notabili e burocrati, sicuramente

doganieri e funzionari, i soliti infiltrati, un compagnuccio

veneto con una fascia rossa sulla fronte e la chitarra a tracolla

che rideva e canticchiava, più la consueta quota di imprecisati

fiancheggiatori o semplici curiosi che non si sa bene cosa facciano

ma sembra comunque che qualcosa facciano.

Era tutto un passare e ripassare di carte e documenti, un

inforcar di occhiali e un impennarsi di penne a biro, un levarsi

di schiamazzi, svolazzi e punti esclamativi. In un concentrato

di lingue ostili e divergenti. Un russo tagliente, un italiano scattante,

un inglese masticato, un po’ di francese, che non c’entrava

niente ma che dà sempre un tocco di raffinatezza, e un po’ di

spagnolo per gli esuli sudamericani senza passaporto in quanto

espulsi o fuggitivi.

Ed erano proprio loro, i cileni, gli argentini, gli uruguayani e

i brasiliani, il problema. La causa che ci teneva ancora lì inchiodati

al porto. La polizia di frontiera non autorizzava l’imbarco

perché diversi passaporti non erano più validi, inesorabilmente

scaduti o direttamente annullati in contumacia nei paesi d’appartenenza.

Se ne intuiva del resto la ragione. Si trattava di op-

positori politici, sfuggiti a repressioni e persecuzioni, in alcuni

casi condanne, su cui pendevano anche richieste di estradizione,

che tuttavia l’Italia non riconosceva. Ma erano pur sempre

cittadini indesiderati, che avevano finito per perdere diritti di

cittadinanza e disperdere la propria nazionalità.

Identità estinta, appartenenza negata. Apolidi e senzapatria,

clandestini del mondo.

Non potevano imbarcarsi né lasciare l’Italia. Protetti dal diritto

d’asilo, ma prigionieri di chi gliel’aveva concesso.

D’altra parte, sarebbe stato impensabile rinunciare a loro, lasciarli

a Genova e chissenefrega.

Come succedeva in casi di questo genere, si sparse tra le nostre

accalorate fila un riflesso d’indignazione solidale, oltreché

spazientita. O si parte tutti o nessuno sale sulla nave. E lungo il

molo numero due riecheggiò improvviso un antico canto di

centinaia di voci spiegate: «Nostra patria è il mondo intero / nostra

fede è la libertà…».

Quel pompante rimbombo, così generosamente compatto,

nessuno se l’aspettava. Men che meno i funzionari di polizia,

che certo tutto avrebbero desiderato in quel momento, fuorché

fronteggiare quel coro tonante, che, nonostante la scadente

qualità canora, a loro doveva apparire alquanto minaccioso.

Erano lì con tutti quei fogli in mano, a guardarsi apprensivi sul

filo del panico.

«Ritelefoniamo al ministero, cazzo! È a Roma che devono

trovare una soluzione», disse sbuffando uno di loro, quello che

si distingueva per la divisa che a stento conteneva le sue rotondità.

Andò nel suo ufficio-gabbiotto con le scartoffie al seguito e

tornò quasi subito. Chiese del comandante della Sobinov, che

subito accorse dietro il suo sigaro e nella sua smagliante uniforme

bianca che lo rendeva ancora più slanciato. Intorno al chiatto

di fureria e allo smilzo di crociera, si formò un capannello, via

via sempre più affollato. Non sapremo mai se l’ufficiale russo

capì cosa chiedesse il sottufficiale italiano. Sfoderò quest’ultimo

una penna e il comandante firmò a raffica ogni foglio o documento

che gli passasse tra le mani, sfumacchiando e sorridendo

nel suo allegro cirillico.

Tanto bastò: il contenzioso si sciolse, il sollievo si sparse.

Un funzionario appollaiato su un’imprecisata scrivania, un

ministeriale come tanti in un ufficio come tanti, aveva eroicamente

disciolto uno spinoso grumo diplomatico. In uno scatto

di burocrazia creativa, si era inventato un affidamento temporaneo

di tutti i rifugiati all’autorità navale sovietica, con l’impegno

di una futura restituzione. Nella sua qualità di suprema autorità

in mare, il comandante poteva prenderseli in custodia garantendone

l’incolumità. Ma a condizione di riportarceli in Italia

quanto prima, sani, salvi, abbronzati, un po’ ingrassati e possibilmente

più allegri.

Non restò a quel punto che dare l’assalto a quella sospirata

scala, superando e scavalcando chiunque capitasse lungo la salita.

In una ventina di minuti eravamo già tutti a bordo.

Ufficiali sul ponte di comando, equipaggio agli ordini: timonieri

al timone, macchinisti alle macchine. Turbine saltellanti,

paratíe tremolanti. Tavoli apparecchiati, cabine attrezzate, letti

rifatti e cessi ripuliti; bar aperti, cucine ribollenti. Rifornimenti

eseguiti, stivaggio completato. Chiusi i boccaporti, pompe e

stantuffi scatenati. Sciolte le cime, liberati gli ormeggi.

I motori presero forza e rimbombanti soffiarono in cielo

polveri e fumi. L’urlo della sirena si srotolò nell’aria: gli rispose

un applauso a distesa. Si alzarono alte le grida di gioia, i canti di

giubilo e l’intera declinazione del vaffanculo, rivolta a bersagli

rimasti indefiniti ma pur sempre meritevoli di ingiurie e contumelie.

Infine la prua si scostò dal molo: lenta, morbida, tremolante.

Eravamo partiti, il viaggio poteva dunque cominciare.

No, non ancora. È necessaria una piccola avvertenza. Lungo

queste prime miglia di navigazione introduttiva, sarà bene av-

vertire che questa storia verrà raccontata così come viene, così

come gli eventi e le circostanze richiederanno. Mi scuseranno i

custodi della grammatica letteraria, ma il narrante non seguirà

né canoni né modelli, attraverserà i tempi e gli spazi spaziando

e tempestando, varierà insomma secondo cadenze e registri del

tutto arbitrari. Potrà essere collettivo o individuale o non di rado

astratto, distratto e anche un tantino mendace, oppure potrà

sentirsi partecipe o al contrario distante, a volte direttamente

coinvolto, così come irresponsabilmente sfuggente e perfino

reticente.

Non c’è tuttavia nulla di cui preoccuparsi, almeno non più di

tanto.

Vedrete che ci divertiamo.

E allora, buon viaggio.

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