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Vent’anni dopo ancora stragi di migranti in mare e nei “lager”

Una ragazza morta in attesa di soccorso dentro un centro noto per le condizioni di invivibilità. Siamo nel 2017 ma potremmo essere nel 1996, nel 1999 o nel 2003

di Alessio Di Florio

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Sandrine Bakayoko, una ragazza ivoriana di 25 anni, è morta di trombosi polmonare (il sostituto procuratore della Repubblica di Venezia Lucia D’Alessandro ha dichiarato all’ANSA che l’autopsia ha accertato la causa della morte in “trombo-embolia polmonare bilaterale”) in attesa di soccorsi che – denunciano gli altri migranti presenti nel CPA di Cona – sono arrivati oltre 5 ore dopo che si è sentita male (fonti ospedaliere affermano che “l’auto medica è partita non appena è giunto l’allarme”), il fidanzato ha raccontato che “stava male da giorni,tossiva, aveva la febbre” e di averla trovata distesa per terra in bagno. Dopo la morte di Sandrine è esplosa la rivolta nella struttura, la cui gestione già in passato è finita nel mirino di critiche e accuse per le condizioni in cui sono costretti i migranti.   Dopo aver visitato il CPA, la delegazione di LasciateCIEntrare titolò il report “620 persone in mezzo al nulla” (oggi sono all’incirca il doppio). “Nei mesi precedenti pare che, siccome la zona è cavalcata da un fortissimo vento, la tendostruttura issata per “accogliere” i migranti si sia sollevata leggiamo nel report della campagna Ecofficina è una cooperativa sorta nel 2011, come gruppo dedicato alla gestione dei rifiuti e dalla fine di marzo del 2014 entrata in ambito accoglienza. Con questo passaggio “il suo valore di produzione è passato dagli iniziali 114 mila euro a un milione e 145 mila”. Secondo i partecipanti alla delegazione, durante la visita uno dei mediatori li avrebbe indicati ai migranti come carabinieri cercando di dissuaderli dal parlare con loro o indicare le criticità della struttura: “Uno dei migranti ospiti non appena si allontana il mediatore ci dice “io ho qualcosa da dirvi”, e dopo alcuni minuti si riavvicina a noi e ci dice che da diversi giorni lui sta molto male e chiede delle medicine che non gli vengono date e che non gli è permesso nemmeno di comprarle da solo. “Ogni giorno mi dicono domani te le portiamo, non preoccuparti ma io sto ancora aspettando”. La conclusione della delegazione di LasciateCIEntrare è che il CPA di Cona non garantirebbe nemmeno la normale dignità di accoglienza cui hanno diritto i richiedenti asilo”. A settembre scorso, a seguito anche dell’avvio di indagini sulla gestione della struttura, Confcooperative ha sospeso la cooperativa che gestisce il centro. Intervistato dal Corriere del Veneto, il presidente regionale Ugo Campagnaro l’8 settembre scorso ha dichiarato “non esiste una legge che impedisce di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza, della qualità dell’intervento, dell’integrazione e della relazione. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business. E, per tutte queste ragioni, vogliamo prendere le distanze da questo soggetto e dalla maniera in cui opera”.

Nelle scorse settimane è tornato ad animare la cronaca nera il CARA di Mineo, la mega struttura siciliana finita anche al centro delle indagini su “Mafia Capitale”: 4 nigeriani sono stati accusati di aver drogato e violentato una connazionale e di aver minacciato il rappresentante nigeriano presente al CARA. Secondo il procuratore di Caltagirone Verzera nel CARA “ogni giorno succede qualcosa: ci sono arrestati, risse, maltrattamenti, c’è gente che tenta il suicidio, quindi ci sono continui interventi delle forze dell’ordine”. Durissima la presa di posizione di Rete Antirazzista Catanese, Comitato NoMuos/NoSigonella, La Città Felice e  Cobas Scuola di Catania, che sono tornati a chiedere di chiudere la struttura definitivamente. “Perché da Roma il Ministero dell’Interno aumenta le presenze, anziché chiuderlo? Come mai si affronta la drammatica condizione di vita dei richiedenti asilo solo come un problema di ordine pubblico? Le forze dell’ordine cosa controllano dentro il Cara se viene per giorni stuprata una ragazza nigeriana e se giornalmente ci sono donne migranti che vengono prelevate dinanzi ai cancelli del Cara per incrementare la piaga della Tratta e il racket della prostituzione?” chiedono le associazioni, sottolineando di aver già denunciato nel dicembre di tre anni fa, dopo il suicidio di Mulue Ghirmay, che nel CARA “il controllo sociale sostanzialmente è stato “subappaltato” a boss etnici che spadroneggiano fra connazionali e non solo. Anche l’inchiesta di Fabrizio Gatti sul Cara di Borgomezzanone  documenta il controllo della mafia nigeriana nella gestione della prostituzione, del caporalato e nel traffico di droga in Puglia”. La media di abitanti nelle case – denunciarono già due anni fa gli antirazzisti – è di oltre 20 persone (quando vi alloggiavano i militari statunitensi di Sigonella vi abitava un solo nucleo familiare) e le condizioni d’indigenza (si continua a versare il pocket money quotidiano di euro 2,50 in sigarette) costringono molti migranti a lavorare in nero per 10/15 euro al giorno nelle campagne; stanno dilagando anche la prostituzione e lo spaccio di droga”. “Questo mega-CARA, unico in tutta Europa, è un esperimento fallito di contenimento forzato dei migranti, che vengono parcheggiati a tempo indeterminato (in media 18 mesi) e che sta costruendo un conflitto razziale tra autoctoni e migranti: da una parte i richiedenti asilo vengono supersfruttati dai caporali nelle campagne, dall’altro la destra xenofoba alimenta nel calatino la guerra fra poveri, mentre con MafiaCapitale i fascio-mafiosi si sono arricchiti sulle nostre spalle e dalle nostre tasche”.

Sono queste due situazioni denunciate in queste settimane, a cavallo del Natale e del Capodanno 2016-2017. Ma, tolti i precisi riferimenti del caso, identici potevano essere scritti 20, 17, 15 anni fa. IL 27 dicembre 2003 il Coordinamento per la Pace di Trapani presentò il “Libro bianco” sull’allora Cpt “Serraino Vulpitta”. Nel dossier, scrissero nel comunicato di presentazione, “abbiamo parlato di violenze, le violenze commesse nei loro confronti, commesse da loro verso gli altri e verso sé stessi, perché per noi l’orrore di un centro di permanenza temporanea sta tutto nelle storie di quelli che abbiamo incontrato”, indicando con “loro” ovviamente i migranti detenuti, “l’orrore sta nelle parole di quelli che si tagliano per sfogare la rabbia, perché ti verrebbe voglia di spaccare tutto ma poi ci stanno le manganellate e il carcere, quindi meglio tagliarsi, anche solo per fare passare il tempo, che là dentro non passa mai”. La notte tra il 28 e il 29 dicembre 1999 passò alla storia del Cpt come la notte della “strage”: dopo un tentativo di fuga represso dodici immigrati furono rinchiusi in una cella, bloccata dall’esterno con una sbarra. “Cosa sia accaduto esattamente dal momento in cui quella porta si è chiusa non lo sapremo forse mai – ha raccontato nel 2012 Stefano Galieni, che una settimana dopo si recò in Sicilia insieme a Dino Frisullo, Tano D’Amico e Giovanni Russo Spena – Sembra che uno dei ragazzi abbia dato fuoco ad un materasso e che all’interno della cella sia scoppiato un incendio. Ma gli estintori erano vuoti e le chiavi della cella desaparecidas. I soccorsi giunsero quando oramai la strage, si la strage era consumata.
Nella cella – questo è il termine più adatto – vennero trovati 3 ragazzi già morti, e altri 3 in condizioni disperate per le ustioni. Solo in 2 sembravano potersela cavare. E così accadde, per uno di loro l’agonia si protrasse per 3 mesi circa, si sperò di salvarlo a Palermo dove in tanti e tante si alternarono a portargli conforto. Ma le flebili speranze si esaurirono in una giornata orrenda
”. Dino Frisullo, mesi dopo, raccontò la strage e l’indignazione successiva nel racconto “Il giuramento”. E sempre Dino fu tra i primi a denunciare quel che accadeva nel Cpt di Lecce gestito dalla Fondazione “Regina Pacis” di Cesare Lodeserto, di cui si occupò documentando la situazione il documentario “Mare Nostrum” (oggi integralmente visibile sul web) del regista RAI Stefano Mencherini. In “Se questa è umanità” Dino raccontò che una delegazionem rimasta nel Cpt un’ora e mezza, ne uscì sconvolta “dal livello di abuso ed arbitrio”. “Gli operatori civili nei Cpt – fu la denuncia di Dino Frisullo – non dovrebbero avere in dotazione bastoni. Invece ce l’hanno, e li usano.
Il 22 novembre qualche decina di “ospiti” tentarono la fuga dal Regina Pacis. La maggior parte di loro furono ripresi. Li abbiamo visti. Ad una settimana di distanza, la camerata dei marocchini sembrava un’astanteria del Pronto Soccorso. Gambe e braccia fasciate e ingessate, lividi, punti di sutura… Secondo la direzione quelle ferite erano il risultato del salto dalla balconata. Ma chi si rompe un braccio o una gamba, non ce la fa a correre e nascondersi, e questi erano stati ripresi a chilometri ed ore o giorni di distanza.
I loro racconti erano univoci. Li avevano condotti a gruppetti nella stanza del direttore, anzi in uno stanzino adiacente, e li avevano picchiati con bastoni di legno ed a calci. Chi? Luca, Natascia, i quattro turchi… Il personale straniero del Regina Pacis. I kapò (anche loro per lo più erano ebrei come le loro vittime…). Poi, dopo aver cominciato a rompergli le ossa, avevano passato la mano ai carabinieri con gli anfibi e i manganelli. Il direttore Lodeserto, il benefattore dell’umanità, il candidato al Nobel per la pace, c’era? Sì, c’era, confermavano tutti. Uno di loro era stato denudato, ammanettato e lasciato per una notte legato all’addiaccio. Un altro era stato massacrato di botte non nello “stanzino” ma in camerata, davanti a tutti, come umiliazione e ammonimento. E la scena si era ripetuta pochi giorni dopo, a ridosso della visita di Nichi Vendola e di un’altra delegazione, per ritorsione. Ed altre volte… Nello “stanzino” si picchia spesso? Sì, spesso, rispondevano
”.

E, per completare il cerchio, il neoministro dell’Interno Minniti ha annunciato la riapertura di CIE (il nome che gli ex Cpt hanno assunto dopo nel 2008) e che ogni regione ne ospiterà uno. Alla luce di quel che i Cpt-CIE sono stati (e di cui qui si riporta solo una minima parte), e di quella che è la realtà già oggi (e anche qui solo una minima parte si è riuscito a  raccontare), non si può che reagire indignati e sdegnati. Italo Di Sabato dell’Osservatorio sulla Repressione l’ha definita “la risposta alla psicosi post-attentati di Berlino e la conseguente vicenda Amri”, aggiungendo che è una tragedia che “si continua a negare, con provvedimenti di questo tipo, la natura politica e sociale sottostante al jihadismo, continuando a legarlo con un “allarme clandestini” fuori dalla storia e dalla realtà; non prendendo inoltre atto della natura radicalizzante della detenzione in carceri o in strutture del tutto similari come gli stessi CIE. Come se gli attentatori di Parigi e di Bruxelles non fossero cittadini degli stessi paesi che hanno colpito, come se nella radicalizzazione di Amri non fossero stati necessari i quattro anni passati nelle celle italiane. La risposta continua ad essere unicamente e solamente iper-securitaria, in un vortice che non farà altro che produrre gli stessi effetti e a produrre nuovi appelli dalle forze politiche che porteranno ad ulteriori dispositivi repressivi”.

Duecentottantanove persone annegate: uno dei naufragi più gravi della storia del Mediterraneo”. Sono le prime parole di “Buon Natale clandestino”, il primo articolo (pubblicato da Narcomafie nel settembre 1997) in cui Dino Frisullo denuncia la “strage di Natale”, il naufragio della notte di Natale dell’anno precedente della nave Johan che portò alla morte oltre 280 migranti. La prima notizia la diede il 4 gennaio 1997 la Reuters, riferendo che alcune persone di origine asiatica, arrestate in Grecia, affermavano di essere superstiti di un naufragio. La notizia fu accolta con scetticismo e quasi nessuno gli diede peso. Per diverso tempo furono “fantasmi” per l’Italia. Dino prese contatto personalmente con queste persone, superstiti del naufragio e con le famiglie delle vittime. Elaborò un dossier che consegnò alle autorità italiane. Solo nel 2001, grazie ad un pescatore di Porto Palo si riuscì a ritrovare il relitto della nave e finalmente le nebbie dello scetticismo (ma vien anche da scrivere, del disinteresse più totale … ) cominciarono a diradarsi. Negli anni alcuni pescatori si erano imbattuti nei resti di quel naufragio, qualcuno addirittura cominciò a parlare di cadaveri ritrovati e poi rigettati in mare. L’armatore e il capitano della Yohan sono stati condannati per la strage entrambi a 30 anni nel 2009. Ma nessuno dei due, ad oggi, è stato estradato in Italia per scontare la condanna. Il 23 dicembre di quest’anno l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati diffonde la notizia che almeno 100 migranti hanno trovato la morte in un naufragio: due gommoni si sarebbero rotti e capovolti per l’eccessivo peso dei migranti. Sul primo gommone probabilmente erano state imbarcate tra le 120 e le 140 persone, di cui solo 63 sopravvissuti, sul secondo gommone forse c’erano 120 persone, 80 dei quali presi a bordo da mezzi della Guardia costiera.  Su ogni cifra e dettaglio il condizionale è d’obbligo perché in realtà l’esatta dimensione della “strage di Natale 2016” e la dinamica non è mai stata del tutto chiarita e documentata. Così come 20 anni fa, in poche ore tutto è sparito dai radar della cronaca e dell’attenzione mediatica. E, ancora una volta, immediatamente consegnate all’oblìo le vittime – affidandosi ancora alle parole di Dino Frisullo – di nuove “holding degli schiavisti”. Era il titolo di un secondo articolo pubblicato nel settembre 1997 su Narcomafie, era la descrizione del business e delle mafie (dettagliato e documentato) che sfruttavano le rotte dell’immigrazione, lucrandoci e arricchendosi sulle spalle di chi fuggiva verso l’Italia sognando una vita decente e dignitosa. Un’inchiesta che oggi, mentre ormai i migranti sono sempre più solo numeri per le statistiche e le propagande e neanche una “strage di Natale” smuove realmente le coscienze, andrebbe aggiornata e che denuncerebbe ancora tantissimo. Ma a tanti, troppi fa comodo non fare i conti con la realtà e le vere dimensioni di mafie e traffici criminali e disumani…

 

Alessio Di Florio

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