La Procura di Roma ha contestato il reato di omicidio preterintenzionale ai tre carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi
di Checchino Antonini
La Procura di Roma ha contestato il reato di omicidio preterintenzionale ai tre carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi, deceduto otto anni fa all’ospedale Pertini sei giorni dopo l’arresto. «I carabinieri sono accusati di omicidio, calunnia e falso. Voglio dire a tutti che bisogna resistere, resistere, resistere. Ed avere fiducia nella giustizia». È il post su facebook di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, pubblicato poco dopo la decisione della Procura di Roma. L’accusa di omicidio preterintenzionale è contestata ad Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, carabinieri in servizio, all’epoca dei fatti, presso il Comando Stazione di Roma Appia, che procedettero all’arresto di Stefano Cucchi in flagranza di di reato per detenzione di droga. Tedesco è accusato anche di falso. A Roberto Mandolini, comandante Interinale della stessa stazione di Roma Appia sono attribuiti i reati di calunnia e falso. Accusa di calunnia anche per lo stesso Tedesco, e per Vincenzo Nicolardi, anch’egli militare dell’Arma.
Ai tre carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale per la morte di Stefano Cucchi è contestata anche l’accusa di abuso di autorità, è detto nell’avviso di chiusura indagine, atto che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, per aver sottoposto il geometra «a misure di rigore non consentite dalla legge». Per la procura con «l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi, riconducibili alla resistenza di Cucchi al momento del foto-segnalamento». Oltreché di omicidio preterintenzionale i tre carabinieri sono accusati anche di abuso di autorità per aver costrettoCucchi a subire «misure di rigore non consentite dalla legge» con l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi riconducibili alla resistenza posta in essere da Cucchi al momento del fotosegnalamento presso i locali della compagnia di Roma Casilina dove dopo l’arresto era stato successivamente trasferito.
«Siamo emozionati e soddisfatti da questa conclusione che abbiamo atteso per anni. Questa è la verità che emerge: omicidio, calunnia e falsi i reati contestati che danno l’idea di cosa sia successo quella sera a Stefano. Dopo sette anni questa è la verità raggiunta e la famiglia Cucchi vuole ringraziare chi ha fatto queste nuove indagini. Il merito va al procuratore Pignatone e a tutti gli inquirenti della procura di Roma». Lo ha detto l’avv. Fabio Anselmo, il legale di Ferrara che assiste la famiglia fin dai primi momenti. Cosa è successo?, è stato chiesto al legale: «Stefano stava bene prima dell’arresto, dopo è morto. Questa la verità che finalmente abbiamo dopo sette anni». Ma questa è solo l’imputazione, è stato fatto notare: «È vero, ma ora al processo ce la giochiamo tutta, faremo i conti con tutti».
Insomma, da lesioni volontarie si è passati all’ipotesi di omicidio preterintenzionale anche dopo una malintesa perizia, quella con cui, secondo Ilaria Cucchi, si tentava «di scrivere la sentenza finale del processo per i responsabili del violentissimo pestaggio a mio fratello». Il collegio peritale si era avventurato a formulare due ipotesi di morte. «La prima, per epilessia, che se in un primo momento viene ritenuta forse più probabile, nelle conclusioni la definisce ‘priva di riscontri oggettivi’. La seconda, dopo aver riconosciuto tutte le evidenze cliniche da sempre dai nostri medici legali evidenziate, riconosce il ruolo del globo vescicale come causa di morte in conseguenza delle fratture. A pagina 195 descrive compiutamente ‘un’intensa stimolazione vagale produce brachicardia giunzionale’, che ovviamente è conseguenza delle fratture, e poi della morte».
Malgrado tutto, gli unici dati oggettivi scientifici che la perizia riconosce sono: il riconoscimento della duplice frattura della colonna e del globo vescicale che ha fermato il cuore. «Abbiamo ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale.
Con buona pace dei medici e degli infermieri che vengono continuamente assolti», scrisse Ilaria nei giorni in cui tutti titolavano sull’epilessia.
Un violentissimo pestaggio, dunque, toccò a Stefano Cucchi, già nella notte dell’arresto da parte di alcuni carabinieri del comando della stazione Appio che spunta solo dopo sei anni nelle ipotesi della Procura della Repubblica di Roma che, con un documento di 50 pagine, ha chiesto al gip a dicembre del 2015 di disporre lo svolgimento di un incidente probatorio per ricostruire tutti i fatti che hanno preceduto la morte di Cucchi, avvenuta il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, «dopo aver subito – come si legge nel documento della procura – nella notte tra il 15 e 16 ottobre un violentissimo pestaggio da parte dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia».
Sempre più concrete, perciò, le ipotesi che emergevano con forza dalle primissime ricostruzioni e dalle evidenti contraddizioni dei carabinieri durante la prima inchiesta. Ma all’epoca, con un proclama perentorio, parve a tutti che il ministro della Difesa La Russa fosse intervenuto a gamba tesa per tenere lontana l’Arma da un’inchiesta. Così fu. Così, forse, non è più. Una consulenza del radiologo Carlo Masciocchi, consulente della famiglia Cucchi, accertò l’esistenza di una frattura lombare recente sul corpo del defunto.
Nella ricostruzione dell’accaduto e soprattutto sulle lesioni subite da Stefano Cucchi nelle carte si scrive che a pestarlo furono i carabinieri D’Alessandro, Di Bernardo e Tedesco. Il pestaggio avvenne in un arco temporale certamente successivo alla perquisizione domiciliare eseguita nell’abitazione dei genitori dello stesso Cucchi, un pestaggio che «fu originato da una condotta di resistenza posta in essere dall’arrestato al momento del fotosegnalamento presso i locali della compagnia Carabinieri Roma Casilina». Qui subito dopo la perquisizione domiciliare si legge nel documento Cucchi era stato portato. Secondo la ricostruzione fatta dal magistrato una volta nella caserma Casilina «fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». In particolare nella ricostruzione decisa dai carabinieri «non si diede atto della presenza dei carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo nella fase dell’arresto di Stefano Cucchi. Il nominato dei due militari infatti non compariva nel verbale di arresto, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti già al momento dell’arresto e pur avendo partecipato a tutti gli atti successivi».
Nel documento della Procura si sottolinea poi che «fu cancellata inoltre ogni traccia di passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici al punto che fu contraffatto con bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento». Poi si aggiunge che nel verbale di arresto non si diede atto del mancato fotosegnalamento e che Stefano Cucchi «non fu arrestato in flagranza per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale perpetrato nei locali della compagnia carabinieri di Roma Casilina, nè fu denunciato per tale delitto. Omissione che può ragionevolmente spiegarsi solo con il fine di non fornire agli inquirenti alcun elemento che potesse spostare l’attenzione investigativa sui militari del comando stazione carabinieri di Roma Appia». Secondo il pubblico ministero fu taciuto agli altri carabinieri che avevano partecipato all’arresto di Cucchi.
malapolizia