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Processo bis Magherini: la droga non spiega la morte. Fu colpa dei carabinieri

Omicidio Magherini, al via il processo d’appello. Il pm chiede un ritocco delle pene ma le parti civili smontano la sentenza di primo grado: «Così fu ucciso Ricky»

di Checchino Antonini

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Omicidio Magherini. Un leggero ritocco alle miti pene del primo grado e un rinvio a dopo l’estate delle argomentazioni delle difese. Non è iniziato bene il processo d’appello per l’omicidio di Ricky Magherini, morto la notte del 3 marzo 2014 in una strada del centro di Firenze, a Borgo S.Frediano. Morì durante, anzi, a causa di un violento fermo dei carabinieri e allo stesso tempo soccorso dal 118 per una grave crisi ed escandescenze causate da cocaina. Aveva 40 anni e un bambino piccolo a cui ha pensato anche negli ultimi istanti di vita, mentre implorava aiuto.

Il sostituto pg di Firenze, Luigi Bocciolini ha chiesto stamani, nella prima udienza del processo di appello l’aumento delle condanne, per omicidio colposo, per tre carabinieri e due volontari della Croce Rossa. Aumento di qualche mese rispetto alle già blande pene del primo grado pronunciate a luglio del 2013: un anno per i tre carabinieri, un anno per una volontaria del 118 e di 8 mesi per un’altra soccorritrice. Un altro carabiniere era stato assolto e la sua posizione non è stata richiamata da nessuna delle parti che hanno ricorso in appello.

Il pubblico ministero vuole un aumento delle pene perché i carabinieri, oltre alle omissioni, avrebbero ammanettato e immobilizzato con pressione sul corpo Magherini, che accusava un malore importante, impedendogli di «respirare liberamente», causandogli un’asfissia mortale e non accorgendosi che così l’ex calciatore era morto; e perché le volontarie nelle stesse circostanze non avrebbero operato con la perizia necessaria. I carabinieri intervennero chiamati dai cittadini dell’Oltrarno che segnalavano un uomo in escandescenze e danneggiamenti.

E’ stata poi la volta delle lunghe arringhe degli avvocati della famiglia Magherini, in aula insieme a numerosi amici, solidali e Ilaria Cucchi. Assenti, invece, gli imputati carabinieri. Inoltre, non sono state autorizzate le riprese in aula del processo.

Fabio Anselmo, legale dei Magherini, ha esordito ricordando che «gli imputati tutelano la violenza, noi tuteliamo il diritto alla vita». La sua attenzione è stata puntata sui numerosi depistaggi che hanno accompagnato le indagini e la prima fase processuale ma, soprattutto, Anselmo ha voluto confutare la sentenza di primo grado che enfatizza «a dismisura» il ruolo della droga nella morte di Magherini ed esclude categoricamente che vi sia stata compressione toracica a uccidere l’ex calciatore. Sembra una replica del caso Aldrovandi, ma stavolta con molti testimoni. Ricorre, con quella storia, la tesi difensiva della Dse, Excited Syndrome Delirium, sindrome non roconosciuta da buona parte del mondo scientifico, che stranamente miete vittime solo tra persone che si trovano in consegna a funzionari in ordine pubblico o legati a un letto d’ospedale. Ricorre un consulente tecnico, il professor Chiarotti, che mai s’è presentato in aula per confrontarsi pubblicamente e fisicamente con i suoi colleghi della controparte, a Firenze come a Ferrara.

Le cause della morte di Riccardo Magherini sono «legate ad un meccanismo complesso, tossico, disfunzionale cardiaco e asfittico sulle quali si sono dichiarate concordi senza che allo stato fossero da richiedersi accertamenti o approfondimenti». Il problema è il dosaggio delle concause e, a quanto sostiene Anselmo, gli errori di procedura di metodo contenuti nella sentenza per sbilanciare l’esito del processo non troppo a sfavore dei carabinieri. Un cuore sano, come quello dell’ex calciatore della Fiorentina, può morire di overdose di cocaina solo per infarto e a seguito di dosi massicce di sostanza. Non è il caso del “Maghero”, come lo chiamavano gli amici che, quella notte aveva un valore non alto di sostanza nel sangue (0,5). Ma il giudice di primo grado sembra ignorare i suoi stessi consulenti e dar un peso notevole a una perizia filo-Dse firmata – per conto dei carabinieri – da un tossicologo farmacista che, come tale, non potrebbe «in autonomia – dice Anselmo – avere la legittimazione e competenza necessari ad autorizzarlo ad esprimersi addirittura sulla causa di morte ben al di là del limite invalicabile della sola valorizzazione e commento delle analisi svolte come mero farmacista tossicologo».

Ma ci sono anche «errori nell’analisi di merito» nella memoria che il legale della famiglia Magherini, ha presentato in aula. Da questa mole di errori, scaturirebbe la «surreale ricostruzione dei fatti, spesso incomprensibile nei suoi passaggi logici, tutta tesa a negare una condotta commissiva degli operanti concretizzatasi viceversa in una prolungata e violenta compressione a terra del corpo del Magherini In posizione prona, e prolungatasi ben oltre il suo ammanettamento con le mani dietro la schiena».

E’ quello che “dice” la lesione al fegato di Ricky, segnalata dal perito del pm ma «inspiegabilmente ignorata dal giudice», insisterà Anselmo. Il professor Norelli, perito della pubblica accusa, spiega quelle lesioni come conseguenza dei tentativi di immobilizzazione, calci e compressione “non consona”, da parte di qualcuno a cavalcioni sulla schiena della vittima. La stessa storia “raccontata” dalle lesioni alle costole frettolosamente archiviate come effetti collaterali delle manovre rianimatorie. Di calci sferrati alla vittima, anche quando era a terra, riferiscono tutti i testimoni di quella notte. Ma la sentenza sembra avere inchiostro solo per il dato tossicologico, per negare l’asfissia indotta dalla compressione ma, per le parti civili, non spiega mai come lo stress di quella notte abbia fermato il cuore sano di Magherini. Eppure i consulenti di parte dei carabinieri e la stessa sentenza non possono evitare di ammettere che c’erano petecchie encefaliche e cardiache o un enfisema polmonare che la medicina legale ritiene significative dell’insorgere dell’asfissia ma che il perito dei cc definisce “petecchie a valenza non petecchiale”. Fu asfissia e si sa fin dall’autopsia. «Non di un’asfissia diretta ma di un meccanismo asfittico progressivo determinato da un’altrettanta progressiva riduzione compromissiva della funzione respiratoria», ammette il perito ignorato dalla sentenza. Riccardo era faccia a terra. E, in quella posizione si respira male anche se un consulente dell’Arma proverà a dire che anzi, con la faccia così si respirerebbe meglio. «Ogni minuto trascorso inutilmente senza soccorrerlo ha compromesso le sue possibilità di essere salvato – ricorda Fabio Anselmo – e Riccardo è morto per asfissia per il solo fatto che non gli è stato materialmente permesso di soddisfare il suo fabbisogno di ossigeno reso particolarmente necessario dal maggior impegno cui è stato sottoposto sul piano emotivo (stress e paura) e fisico (colluttazione, dolore e compressione)». Non ci sono elementi per sostenere che sarebbe morto comunque, anche se non avesse incontrato quei carabinieri.

Così scrivono gli attivisti di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa che segue dalle prime ore la vicenda: «Dalle parole degli avvocati di parte civile (è intervenuto anche Alfano) è emerso alla perfezione  che se Riccardo moriva in strada il pubblico ministero sarebbe dovuto intervenire subito e invece la vergogna è stata proprio questa:  l’inizio del depistaggio come un copione già scritto, Riccardo fatto morire in ospedale per iniziare i depistaggi e preparare il terreno per garantire l’impunità a chi lo aveva ucciso. Parole che di fatto hanno ridicolizzato la sentenza salvandola solo nel valore simbolico che ha avuto per la famiglia in quanto ad oggi può chiamare assassini tre dei 4 carabinieri che hanno spezzato la vita di Riky quella notte. Ma tutto il resto rimane una grande vergogna. La vita di Riky vale molto di più.

 

 

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