La morte di Stefano Cucchi: cinque carabinieri dovranno rispondere, a vario titolo, di omicidio preterintenzionale, calunnia e falso. A ottobre si ricomincia
di Checchino Antonini
Ritornerà in Corte d’assise la vicenda della morte di Stefano Cucchi, il geometra romano che nell’ottobre 2009 morì in ospedale una settimana dopo il suo arresto per droga. Settimana di calvario, secondo l’accusa, iniziata nell’opacità di una guardina dei carabinieri, dettagli di una notte spariti dagli atti per anni, finché la polizia giudiziaria non ha raccolto le testimonianze di due carabinieri e intercettato le confidenze di altri militari coinvolti e da oggi imputati. Il gup capitolino, Cinzia Parasporo ha disposto un nuovo processo nei confronti di alcuni membri dell’Arma che arrestarono Cucchi e che, per l’accusa, sarebbero i responsabili di un ‘pestaggio’ che il giovane avrebbe subito. Ci fosse una legge decente si potrebbe definire tortura ma le malizie bipartizan hanno annacquato un testo già ambiguo proprio poche ore prima della decisione del gup. Otto anni saranno passati dalla morte quando nell’aula bunker di Rebibbia rientreranno i familiari di Cucchi. In cerca di frammenti di verità e pezzetti di giustizia. Intanto, nel Paese, è cresciuta la coscienza diffusa che gli abusi di chi indossa una divisa debbano essere fermati non solo nelle aule di giustizia ma con tutti gli strumenti a disposizione: norme adeguate, un addestramento all’altezza della situazione, l’educazione ai valori costituzionali, il ruolo della cittadinanza attiva per una controinchiesta permanente che contrasti una enfasi retorica su corpi di polizia inadeguati alla trasparenza.
Sarà dunque la III Corte d’assise – la stessa che, sia pure in diversa composizione, si è occupata della prima inchiesta su quella morte – che nel prossimo ottobre valuterà la posizione di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale. All’epoca dei fatti in servizio presso la Stazione carabinieri Roma Appia. Sono loro i militari che la procura di Roma indica come coloro che arrestarono il geometra romano nella flagranza della detenzione della droga e che lo avrebbero pestato. In più, il maresciallo Roberto Mandolini, che della Stazione Roma Appia era comandante interinale, risponderà in processo dei reati di calunnia e falso, mentre lo stesso Tedesco, insieme con Vincenzo Nicolardi, di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria che furono processati per questa vicenda e poi assolti in maniera definitiva.
«Finalmente i responsabili della morte di mio fratello, le stesse persone che per otto anni si sono nascoste dietro le loro divise, andranno a processo e saranno chiamate a rispondere di quanto commesso», ha commentato a caldo Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. C’è invece una contestazione per la quale il processo non si farà: quella di abuso di autorità, contestata a Di Bernardo, D’Alessandro e Tedesco. In questo caso, accogliendo la richiesta della stessa procura, il gup ha pronunciato sentenza di ‘non doversi procedere’, essendo ormai il reato prescritto. Adesso tutto è pronto per un nuovo processo, dopo quello per la prima inchiesta (quella che vedeva imputati medici, infermieri e agenti della penitenziaria) che ha visto un ‘rimbalzo’ continuo tra organi giudicanti, tra primo grado, appello, Cassazione e un plurimo ritorno indietro. «Gli imputati oggi finalmente subiranno un giusto processo per le loro gravissime responsabilità. Non potranno più contare di farlo fare sulla pelle degli altri. E, nel dire altri, dico tutti: imputati e parti civili», ha aggiunto il legale storico della famiglia, l’avvocato Fabio Anselmo. Non ci stanno, invece, i legali dei carabinieri. «Da giurista mi sento di urlare che la responsabilità penale è personale. Non si può essere accusati di omicidio per la morte causata dall’errore eclatante e straordinario di un medico – ha detto l’avvocato Antonella De Benedictis – da cittadina mi sento di manifestare preoccupazione. La certezza del diritto è infatti baluardo di garanzia per ogni consociato. Sono in ogni caso assolutamente certa dell’indiscutibile valore e competenza della nostra magistratura e ciò mi rasserena come avvocato e come italiana»
Per la dodicesima volta la complessa vicenda di Stefano Cucchi arriverà al vaglio di un giudice. Dopo processi, consulenze e perizie, davanti a un giudice si tornerà a discutere di un ‘pestaggiò come causa principale e scatenante di quella morte, anche se il dito adesso sarà puntato su persone diverse – i carabinieri – rispetto a coloro che fino a poco tempo fa erano stati al centro dell’inchiesta della magistratura capitolina. Tutto iniziò il 15 ottobre 2009, quando Cucchi fu arrestato perché trovato in possesso di droga. Già nel cuore di quella notte si sentì male in caserma, e le sue condizioni peggiorarono, tant’è che in breve tempo fu portato in ospedale, dove morì. Furono portati a processo sei medici, tre infermieri e tre agenti della penitenziaria; per accuse terribili, contestate a vario titolo e secondo le rispettive posizioni, ovvero abbandono d’incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso d’autorità. Nella prima indagine, l’ipotesi accusatoria fu che Cucchi era stato ‘pestato’ nelle celle del tribunale e in ospedale era stato abbandonato e lasciato morire di fame e sete. Nel processo di primo grado, però, i giudici arrivarono a un’ipotesi diversa: nessun pestaggio, ma morte per malnutrizione. Unici colpevoli furono dichiarati i medici – per omicidio colposo – con assolti invece infermieri e agenti penitenziari. Davanti ai giudici d’appello, tutto fu ribaltato: tutti gli imputati furono assolti, senza distinzione di posizioni. E la Cassazione arrivò alla parziale cancellazione di questa sentenza e l’ordine di un appello-bis per omicidio colposo per i medici. La conclusione fu una nuova assoluzione (nel frattempo diventò definitiva l’assoluzione di agenti e infermieri), e un nuovo annullamento in Cassazione (ci sarà un nuovo processo). L’ostinazione di Ilaria Cucchi e della sua famiglia portarono poi all’inchiesta-bis, oggi definita con il rinvio a giudizio dei carabinieri. Nel frattempo, un altro ‘passaggio’ processuale: quella nei confronti di un funzionario del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, condannato in primo grado e poi assolto in appello per l’accusa di falso, favoreggiamento e abuso d’ufficio perché gli si contestava di avere concorso alla falsa rappresentazione delle reali condizioni di Cucchi per consentire il suo ricovero in ospedale. La Cassazione ha rimandato indietro il processo, con una conferma dell’assoluzione; nei giorni scorsi, i Supremi giudici hanno reso definitiva l’assoluzione. Restano le responsabilità politiche di chi ha fatto di tutto perché i carabinieri restassero così a lungo in un cono d’ombra lontano dalle indagini.