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Davide Bifolco, uno sparo in una notte qualsiasi

Tre anni fa un carabiniere sparava a Napoli e uccideva Davide Bifolco, 17 anni. Uno scugnizzo del Rione Traiano. Un’inchiesta di Riccardo Rosa ricostruisce il caso e l’impatto sulla città

bifolco

Aveva la terra in bocca dopo lo sparo che l’avrebbe ucciso. Enrico, il suo amico, la mattina appresso, aveva ancora lo sguardo spaventato. Ripeteva alle agenzie, quasi a memoria, quel che ha vissuto la notte. Era a bordo di uno scooter insieme ad un amico, accanto a Davide Bifolco, il ragazzo di 17 anni ucciso da un carabiniere nel corso di un inseguimento a Napoli. «Stavamo percorrendo un viale quando ad un certo punto una macchina dei Carabinieri è andata contro lo scooter di Davide. È iniziato l’inseguimento, è stata puntata la pistola e Davide è stato ucciso – dice ancora – l’hanno ammanettato come il peggior dei criminali, nonostante fosse già stato colpito». «Davide era un bravissimo ragazzo – aggiunge Enrico – per me era un fratello. Giocavamo a calcio, scherzavamo tra di noi. Non eravamo delinquenti, stavamo soltanto facendo un ultimo giro prima di tornare a casa». Così dice anche la madre: ”Mamma, vado a fare un giro e torno”, le aveva detto, «Dopo 5 minuti è arrivata una ragazza dicendomi che avevano fermato Davide sul motorino e che servivano i documenti. Sono corsa sulla 38 e ho trovato mio figlio morto a terra».

Era un 5 settembre qualsiasi. O, almeno, doveva esserlo. Invece quella notte un carabiniere aveva ucciso un ragazzino di 17 anni. Davide Bifolco. Due anni dopo, il 21 aprile del 2016, per il delitto, sarebbe stato condannato a 4 anni e 4 mesi Giovanni Macchiarolo, il carabiniere che sparò al termine di un inseguimento nel Rione Traiano a Napoli. La sentenza è stata emessa al termine del processo con rito abbreviato, ed è stata accolta dalle proteste dei familiari del giovane e di un gruppo di manifestanti all’esterno del Palazzo di Giustizia di Napoli. «Assassini» e «Davide vive con noi» sono i cori rivolti alle forze dell’ordine disposte davanti all’entrata per impedire l’accesso.

«Per quello che era il compendio investigativo, sul quale mi sono espresso in maniera estremamente critica, è andata molto bene». Così Fabio Anselmo, legale della famiglia di Davide Bifolco e anche di altre famiglie vittime di malapolizia (da Aldrovandi a Cucchi, da Budroni a Magherini ecc…). È una pena «più grave ancora di quella chiesta dallo stesso pm, vicina al massimo in regime di rito abbreviato – aggiunge Anselmo – somiglia molto a una pena più per delitto volontario che colposo». Per Anselmo però, per quanto riguarda le indagini, «si poteva e si doveva fare di più. Migliori indagini avrebbero fugato ogni dubbio. Leggendo gli atti di indagine ho provato tanto imbarazzo. Sono innamorato della giustizia, della divisa, dei Carabinieri, dei giudici e dei pm, ma quando vedi atti di questo genere provo tanta rabbia e amarezza. I rilievi di quella notte non danno conto di nulla».
Luci e ombre, dunque, al termine del primo capitolo di questa vicenda giudiziaria. La battaglia per verità e giustizia di un pezzo della città è certamente all’origine di questo processo mentre i giornali compiacenti erano alle prese con la costruzione della criminalizzazione della vittima tipica di ogni caso di malapolizia. Da quel giorno di settembre Napoli è spaccata tra chi chiede che cessi la violenza dello Stato e chi costruisce una cortina di menzogne per coprire un omicidio, per proteggere istituzioni latitanti e incapaci di autoriformarsi. Fa parte, forse suo malgrado, di questa seconda corrente anche chi – solo pochi giorni fa – dalle colonne di un blasonatissimo quotidiano nazionale ha voluto insinuare che i centri sociali che contestavano una messa in scena di Renzi a Bagnoli fossero «più o meno infiltrati dalla camorra». A giudicare dagli articoli di nera e di giudiziaria l’unico soggetto che a Napoli è davvero implicato con le cosche è il Partito della Nazione nelle sue articolazioni di “sinistra” – il Pd – e in quelle di destra più o meno estrema.
L’uccisione di Davide Bifolco ha scatenato, invece, le urla di dolore dei rioni popolari da sempre incastrati nella morsa convergente della criminalità organizzata e del braccio violento di una legge a senso unico. Anche in questo ennesimo caso di malapolizia è stato importante il ruolo di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, nel sostegno concreto alla famiglia Bifolco e nella campagna di controinformazione.

Ora la vicenda è al centro di un’inchiesta di Riccardo Rosa, giornalista di Napoli Monitor, una testata indipendente, che ha seguito le indagini e le mobilitazioni cittadine. Non solo è stato ricostruito quanto accaduto quella notte e nei giorni immediatamente successivi, ma anche l’impatto della vicenda sulla città, analizzando il ruolo e il contegno di chi ha avuto il compito di raccontare i fatti, restituendo lo spessore delle storie di vita di Davide, dei suoi familiari, e degli abitanti del quartiere.

Questa inchiesta in profondità è diventata un libro, “LO SPARO NELLA NOTTE Sulla morte di Davide Bifolco, ucciso da un carabiniere”, pubblicato da MONiTOR Edizioni e del quale Popoff pubblica il leed, l’attacco [checchino antonini]

 

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Una notte qualsiasi

Lo chiamano ‘o Tertulliano, con l’articolo davanti. È una strada, un grosso serpente che attraversa il quartiere e che ha la forma di una delta greca. Il Tertulliano si incrocia con quello che la gente chiama ‘o stradone, all’altezza della villa comunale. Lo stradone taglia il Rione Traiano in due, “rione di sopra” e “rione di sotto”, separati dal flusso di automobili e motorini che scandiscono il tempo sul doppio senso, tra pompe di benzina, edicole e muri di cinta.

Se cerchi la casa di qualcuno che abita dalle parti del Tertulliano, ti conviene chiedere in giro. Le palazzine sono tante, costruite disordinatamente, con una numerazione irregolare. La densità abitativa è molto alta, come in tutto il quartiere, soprattutto da quando, dopo il terremoto, la gente ha cominciato a occupare gli scantinati delle palazzine, non avendo trovato una soluzione migliore al costruirsi casa in cantine, seminterrati, box auto. Oltre al viale Traiano – il nome ufficiale dello stradone – e alla via dedicata a Tertulliano, nel quartiere ci sono strade che portano i nomi di Anco Marzio e di Adriano, di Lattanzio e di Marco Aurelio.

Da ragazzini, quando si passava di là, ce li immaginavamo un po’ spaesati, questi antichi romani, andarsene in giro tra quegli edifici di mattoni piccoli e rossi tutti uguali, con la gente del rione che gli chiedeva, in dialetto: «A chi state cercando?». Sono passati più di dieci anni e il rione è più o meno lo stesso. Alcuni bar hanno comprato i box auto adiacenti e hanno ingrandito la loro attività. Le sezioni dei partiti hanno chiuso. In compenso sono aumentati i servizi di patronato, i centri di assistenza fiscale e quelli per le scommesse, dove i ragazzi impiegati part-time picchiettano sulle macchinette dietro agli sportelli per stampare le schedine con le giocate. I campetti degli oratori sono sempre affollati, mentre il palazzetto dello sport cade a pezzi. Quando è estate e fa molto caldo, qui sembra che faccia caldo il doppio.

Sono le nove di sera di un 4 settembre qualsiasi. A via Tertulliano abitano Luisa e Maria. La televisione nel loro appartamento è accesa, le finestre aperte, non c’è troppo rumore in strada. Le donne hanno cenato col nipote Arturo, venticinque anni. Dopo mangiato, mentre loro rimettono in ordine la cucina, Arturo esce salutandole con un cenno del capo. Fuori lo aspettano gli amici. Una volta in strada, il giovane si assicura di aver lasciato il portoncino del palazzo socchiuso. Anche quando è sul marciapiede con gli amici continua a tenerlo sotto controllo. Visto da lontano, sembrerebbe uno che ha dimenticato le chiavi del palazzo e ha paura di rimanere fuori. Arturo resta in strada per circa un’ora, ma durante quell’ora, ogni volta che qualcuno entra nel palazzo, lui gli chiede di rimettere il portone nella posizione in cui l’aveva lasciato. Se ne sta lì, sul marciapiede di fronte casa della zia a perder tempo.

Qualsiasi cosa faccia, però, tiene d’occhio il portone. Mentre Arturo chiacchiera con gli amici, Susy e Nunzia si scambiano sms dai loro cellulari. Hanno passato il pomeriggio insieme, poi alle nove si sono salutate per andare a cenare. Messaggi brevi, scritti con le dita che schizzano sulla tastiera dello smartphone. Giusto il tempo di farsi vedere a casa, una doccia e un piatto di pasta. Poi, quando non sono ancora le undici, Nunzia esce di nuovo col motorino e raggiunge Susy sotto casa sua, tra le palazzine Ises di viale Traiano. «Andiamo a fare un giro?». A quell’ora, di solito, la temperatura scende leggermente. Finalmente si respira.

Anche Davide, Vincenzo e Salvatore sono in giro. Anche loro, a un certo punto, si sono salutati per andare a mangiare e anche loro, due ore dopo, sono di nuovo insieme. Vincenzo e Davide si conoscono da bambini. Il vecchio pallone di tela è diventato di cuoio, le tute rattoppate dalle mamme ora sono divise sgargianti di qualche squadra giovanile del quartiere. Si esce di casa come da uno spogliatoio, con le scarpe coi tacchetti e il pallone in mano, anche per giocare sull’asfalto. Le biciclette che impennavano con la forza delle braccia ora sono scooter che si alzano con un gioco di polso. Le ragazzine guardano sorridendo e chiedono di portarle a fare un giro. Così ci si fidanza e a volte ci si sposa, come è successo a Vincenzo.

I tre non hanno combinato molto durante la giornata. Qualche commissione in giro per il rione, tra la piazzetta della chiesa, il pub di Annalisa e lo stradone. Quasi sempre in motorino, sotto il sole che proietta fino al tramonto il suo film sulle palazzine.

Vincenzo è il più grande. Ha ventidue anni. È un ragazzo biondo, alto e magro. Cammina con andatura pigra, le spalle curve, la testa leggermente piegata in avanti. È un tipo tranquillo, a luglio ha sposato Roberta ed è andato ad abitare proprio di fronte a casa di Davide. La sua famiglia è legata al mare e anche lui ha lavorato per qualche anno nel piccolo cantiere navale del padre, a Castel Volturno.

Un lavoro pesante, che però non gli dispiace. Un modo qualunque per tirare avanti. Quel che poteva garantirgli la famiglia con quell’impiego, però, non è bastato quando Enzo e Roberta hanno avuto un figlio e così si è messo a cercare qualcos’altro. Non l’ha ancora trovato.

Salvatore di anni ne ha diciotto. È nato a via Piave, quartiere Soccavo, ma le sue giornate le passa nel rione, dove tutti lo chiamano Totore Avatar, anzi Avatàr, storpiando l’accento al protagonista di un film di fantascienza di qualche anno fa. Un “avatar”, nel film, è un ibrido tra un uomo e un alieno di Pandora, il satellite del pianeta Polifemo, distante cinque anni luce dalla terra. Gli avatar vengono creati dagli scienziati perché gli umani, che vogliono sfruttare i giacimenti minerari del pianeta, non sono in grado di sopravvivere alle condizioni climatiche di Pandora. Così nasce l’ibrido, per controllare la situazione senza arrivare a uno scontro con i nativi, poco inclini all’idea che qualcuno rompa l’equilibrio del loro territorio. Salvatore parla poco. Più che timido, è uno di quelli a cui piace aspettare che le cose prendano una direzione prima di muoversi. Avatar non va a scuola e non lavora. La mattina, quando esce di casa sul suo motorino, va subito a cercare i due compagni.

Davide è il più piccolo dei tre. Ha sedici anni, gioca bene a pallone e tifa per la Roma, cosa abbastanza strana per un ragazzino napoletano. Ma quando era bambino il Napoli era in serie C e Totti era uno dei giocatori più forti del mondo. Pure Davide ha stoffa e potrebbe diventare un calciatore professionista. Per ora è la stella della squadra del rione messa in piedi da Pasquale Foggia, ex ala della Lazio con qualche presenza in nazionale.

Da queste parti Foggia è stato un idolo fin da bambino. Eppure sul campo di via Romolo e Remo, all’epoca ancora pieno di sassi – dove se cadi i segni ti restano sulle ginocchia per un anno, perché la ferita non fa in tempo a sanarsi che tu cadi di nuovo, e di nuovo – prima di lui sono passati pure i fratelli Cannavaro. Un pallone d’oro e un capitano del Napoli. Ma con Foggia era diverso, Lino già da bambino “buttava le porte a terra”. Piccolo, sgusciante, velocissimo, su quel campo dove il sole batte a picco dalle due alle sei procedeva con una media di tre-quattro gol a partita, e la domenica i bambini chiedevano ai papà di andare a vederlo giocare con il numero sette o con il dieci sulle spalle, e la maglia granata della squadra del Cral Banco di Napoli. Cose simili a quelle che faceva Pasqualino, sullo stesso campo, vicino al Tertulliano, anni dopo le fa vedere Davide. I due si assomigliano: nella rapidità, nel dribbling, nella capacità di andar via all’avversario. In campo Davide è sfrontato, esattamente come è fuori. Forse anche un po’ presuntuoso: cerca la giocata, irride l’avversario, prova il tunnel quando il difensore indietreggia o gli si fa incontro con le gambe aperte; calcia di destro e di sinistro, non è molto alto, ma ha il tempo giusto nel colpo di testa. Segna gol a ripetizione, fin dalla prima volta in cui ha messo piede su quel campo.

Sono le dieci di sera. Vincenzo, Salvatore e Davide gironzolano per le strade del rione, questa volta a piedi. Una partita a carambola in una sala giochi non lontano da casa. Si chiacchiera, si fuma, si gioca a biliardino. Qualche scommessa virtuale dalle postazioni internet del circoletto.

Dopo l’ultima “bolletta”, i tre decidono di andare a fare un giro in macchina. Verso mezzanotte si fermano ancora a parlare con altri ragazzi che conoscono, nel parco vicino la chiesa, a pochi metri da casa di Davide e Vincenzo.

In quegli stessi momenti, a via Pietro Testi, dall’altra parte del quartiere, sfreccia una Ford Focus nera. Davanti al posto di blocco della pattuglia Soccavo dei carabinieri, con a bordo gli appuntati Caruso e Andolfo, la macchina non si ferma. Anzi sterza improvvisamente, accelera e tira dritto. I due agenti si infilano in auto e si mettono all’inseguimento.

A quel punto, uno dei due passeggeri della Focus getta dal finestrino una pistola a tamburo, deviando per le strade interne del rione. Caruso e Andolfo mollano l’inseguimento per recuperare l’arma e, dopo aver riferito via radio l’episodio al maresciallo Sarno (il comandante di squadra in servizio in quel momento), si recano alla caserma Caracciolo per consegnare la pistola. Per coprire la zona e rintracciare i fuggitivi sulla Focus, Sarno chiede l’intervento tra Soccavo e il Rione Traiano, della pattuglia Chiaia. A bordo ci sono gli appuntati Del Vecchio e Macchiarolo.

Passa circa mezz’ora e, perse le speranze di rintracciare l’auto, le due “gazzelle” si mettono alla ricerca di una motocicletta Triumph, rubata qualche ora prima nel quartiere Chiaia, e segnalata ora al rione, nei dintorni dello stradone.

Sono passate le undici. Ora si sta in strada con piacere, comincia ad alzarsi una leggera brezza. Il Liberty di Nunzia e Susy è parcheggiato di fronte a un bar dove le due amiche sono arrivate da poco. Siamo a Fuorigrotta, in piazza San Vitale. Le ragazze sono lì a chiacchierare quando gli passa davanti un motorino SH, velocissimo, con a bordo un ragazzo inseguito da un’auto dei carabinieri. Nunzia e Susy seguono la scena, cercano di capire cosa stia succedendo, ma in un attimo è già tutto finito. Così, senza pensarci troppo, tornano agli affari loro. Non possono sapere che quell’inseguimento è cominciato al Rione Traiano, non lontano dalle loro case. Non possono sapere nemmeno che finirà poco più avanti, quando l’SH attraverserà lo spazio tra i paletti che separano la carreggiata dall’area pedonale di piazza Italia, impedendo ai carabinieri di continuare la caccia. Un’ora dopo le ragazze rientrano al rione. Hanno appuntamento con un amico, Giovanni, davanti al Trentotto, un parco privato che prende il nome dal numero civico del viale Traiano in cui si trova. Sono le prime ore di un 5 settembre qualsiasi.

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