Aborto, storia di ordinaria obiezione. Nell’ospedale San Martino di Genova un ginecologo si rifiuta di visitare una paziente: “sono obiettore” e la lascia sola in corsia.
di Marina Zenobio
Aborto, storia di ordinaria obiezione. Una diciannovenne è stata costretta a chiamare la polizia per poter esercitare il suo diritto alla visita di controllo dopo l’assunzione dei farmaci per l’interruzione volontaria della gravidanza (Ivg). E’ accaduto all’ospedale San Martino di Genova alla vigilia di Paqua. La giovane donna aveva assunto il giorno prima la Ru486 e, come da protocollo sanitario, il giorno dopo avrebbe dovuto assumere la seconda dose del farmaco e sottoporsi alla visita di controllo con relativi esami ecografici. Al ritorno in ospedale, però, nel reparto di ginecologia trova in servizio solo un medico, Salvatore Felis di 57 anni, obiettore di coscienza, che si rifiuta di visitare la donna. Viene anche informato il primario, il professor Claudio Gustavino, che però non ravvisa particolare gravità nell’evento perché, dirà successivamente, è convinto che il dottor Felis, al di là delle sue idee riguardo l’Ivg, avrebbe comunque visitato la donna per poi dimetterla. Cosa che non accade, la giovane rimane abbandonata per ore in corsia senza che nessuno le spieghi cosa sta accadendo. Possiamo solo immaginare cosa sia passato per la testa di questa ragazza che, dopo aver dovuto prendere la difficile decisione di abortire, si ritrova abbandonata a sé stessa all’interno di una struttura sanitaria pubblica.
Dopo una lunga attesa, presa dallo sconforto, la donna decide di chiedere l’intervento della polizia ed è solo con l’arrivo degli agenti che si trova finalmente un medico disposto a visitarla, e solo dopo l’intervento della polizia – che nessuna donne vorrebbe mai esser costretta a chiamare per esercitare il suo diritto all’autodeterminazione – il primario si ravvede dichiarando che “è stato fatto un errore”, che “la paziente aveva tutto il diritto di poter concludere l’iter iniziato” come indicato sulla cartella clinica, e si è impegnato affinché in futuro non capiti più una cosa genere organizzando i turni in modo che vi sia una copertura totale anche nei periodi più difficili dell’anno, come Natale e Pasqua. Staremo a vedere.
Quello che è accaduto nell’ospedale di Genova, però e purtroppo, non è un caso isolato. Negli ultimi vent’anni la quota di medici obiettori di coscienza ha raggiunto una media nazionale del 90%, impedendo così la corretta applicazione della legge 194/78. E’ talmente elevata la percentuale degli obiettori nei nostri ospedali pubblici che il Consiglio d’Europa, per voce del suo Comitato per i Diritti Sociali, neanche due mesi fa, ha ufficialmente riconosciuto che l’Italia viola i diritti delle donne che intendono interrompere la gravidanza (alle condizioni prescritte dalla legge 194), a causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza.
Sul richiamo all’Italia del Comitato per i Diritti Sociali del Consiglio d’Europa (http://www.coe.int/T/DGHL/Monitoring/SocialCharter/Complaints/CC87MeritsSummary_en.pdf) si legge che “le donne che tentano di accedere all’aborto sono costrette ad affrontare notevoli difficoltà nonostante la legislazione in materia. Queste difficoltà sembrano essere il risultato di una applicazione inefficace dell’art. 9 comma 4 della legge 194/1978 che disciplina l’obiezione di coscienza di medici e altro personale sanitario in relazione all’interruzione della gravidanza”.
Per la precisione l’articolo della 194 citato recita: “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La Regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale”.
Spetta dunque alle Regioni il compito e la responsabilità di garantire un numero di medici e personale sanitario non obiettore congruo alle richieste di Ivg.
Il Consiglio d’Europa nel suo richiamo ha anche riconosciuto che mentre da una parte le autorità di vigilanza competenti delle Regioni continuano a non garantire il rispetto del dell’articolo 9.4 della 194, dall’altra alle donne che si rivolgono alle strutture pubbliche per interrompere volontariamente la gravidanza è riservato – senza alcuna giustificazione – un trattamento “diverso”, ossia pregiudizievole, riguardo l’accesso alle cure sanitarie.