Dopo l’apertura a Cannes, arriva nelle nostre sale il film con Nicole Kidman e Tim Roth sulla musa di Hitchcock che scelse di regnare. Su Popoff la recensione.
«L’idea che la mia vita sia una favola è di per sé una favola». Parte così il film, non necessariamente biografico (o biografico quanto basta), che ha fomentato le polemiche tra i figli di quella Grace Kelly. La Grace Kelly brillantemente hollywoodiana (per un po’) diventata, poi, principessa di Monaco.
Olivier Dahan, che ha dimostrato di saperci fare con le vite delle femmes (il suo La vie en rose mi aveva conquistata), si impegna a portare sullo schermo pochi mesi del 1962, cruciali, della vita di un’altra donna/icona. E chiama Nicole Kidman a confrontarsi con cotanto personaggio.
Dahan è un’artista, in fin dei conti, e non teme i mezzi del suo mestiere. Li corteggia, li plasma a suo piacimento, li piega alle sue esigenze riuscendo, così, a trasformare la Kidman in una credibile Grace. Anche troppo. Nicole ritrova lustro e splendore, tanto che la sua personalità, la sua fisicità, le sue qualità d’attrice rischiano quasi di strabordare e di soffocare il suo personaggio. Quasi, per fortuna. Gli abiti (merveille!) riescono a contenere tanto entusiasmo e a deviare l’attenzione.
La scelta di Dahan è specifica. Raccontare la crisi. La crisi di Monaco (ai ferri corti con la Francia di Charles De Gaulle); la crisi di un matrimonio («L’amore vero è… dovere»); la crisi di un’identità; la crisi di una madre, di una moglie, di una sovrana; la crisi di un’attrice. Vuole mostrare la contraddizione e lo scontro di pensieri, abitudini, valori diversi. «Qui non siamo in America, Grace!/A me è stato insegnato a non avere paura di quello che si dice!». E in questo il regista riesce a far centro, affiancando alla sua protagonista un Tim Roth che non assomiglia per niente a Ranieri ma che riesce a rendere un’atmosfera, l’atmosfera che Grace probabilmente ha respirato in quei giorni nel Paese che aveva scelto come casa.
«Questo è un regno senza cuore». Il rovescio della medaglia (perché c’è) è che, in questo modo, si decide anche qualcos’altro. Si decide di sacrificare l’imparzialità e di celebrare un mondo piuttosto che un altro. L’America invece della Francia (o dell’Europa). E la crisi sembra risolversi sull’enunciazione di parole, su discorsi di buon cuore, sull’opzione più difficile che comporta, però, sacrificio. E l’annessa mitizzazione.
Non che Grace abbia bisogno di essere mitizzata. Lo è già, un mito. Eppure avrebbe avuto bisogno di essere affrancata, di essere liberata ancora una volta su quel grande schermo che l’aveva resa celebre, che l’aveva reclamata tante volte, che aveva tentato di riprendersela con tanta insistenza («Ricordati tesoro: non stare troppo vicino al bordo dell’inquadratura»). Per un po’ Dahan ci è riuscito. Ci sarebbe voluto Hitchcock per raccontare senza errori l’afrodite americana (così l’aveva soprannominata De Gaulle: «Sono sopravvissuto a un attentato! Non ho paura di un’attrice). I costumi e le scenografie, sfarzosamente ostentati e riscostruiti diligentemente, sono il punto di forza di questa pellicola e rendono gradevole la visione anche a un non appassionato del genere. I fissati con la moda (quella con la “m” maiuscola) troveranno pane per i loro denti.
Questo, ovviamente, non può bastare a rendere indimenticabile un film che non si dimostra all’altezza del suo predecessore (quello su Edith Piaf, per intenderci) ma può bastare, se si aggiungono le performance degli attori (c’è pure quel mostro di Frank Langella, non dimentichiamolo!) e qualche scena altamente poetica, a fare un film discreto.
Se Dahan ha un merito, certamente è quello di aver messo in dubbio la “versione ufficiale” dell’addio dell’attrice al mondo del cinema.
«Perché il desiderio di ognuno è trovare un posto in cui essere se stessi… amati e senza pregiudizi». Chissà se quel posto Gracie l’aveva trovato davvero. O se ci sono stati dei momenti, dopo quel 1962, in cui, sul suo volto, si poteva leggere una sola parola. Rimpianto.