Arriva al cinema il film che racconta la genesi dell’attentato più sanguinoso compiuto durante gli anni della strategia della tensione. Su Popoff la recensione.
«I rossi se riconoscono dalla puzza». E se puzzano, si stanano facilmente e si fanno fuori. Sempre altrettanto facilmente. In quegli anni che la mia generazione non può ricordare (ma che dovrebbe sforzarsi di capire/scoprire), in quegli anni che ancora oggi rappresentano pagine poco chiare della nostra storia, in quegli anni di cui qualcuno dovrebbe parlare apertamente, si compivano atti atroci in nome di non s’è capito bene cosa. In nome della strategia della tensione? In nome dello stragismo? In nome della destabilizzazione dello Stato? O in nome della destabilizzazione ai fini di una stabilizzazione che impedisse svolte, cambiamenti sgraditi a certi apparati di potere, a certe sovrastrutture (para)statali?
Per una come me, nata nel 1985, rispondere a questa domanda è quasi impossibile (se non fosse che niente nella vita è impossibile). Dovrebbe farlo la generazione precedente, quella che occupava le piazze e lottava per i diritti (che sarebbero diventati anche nostri), quella che assisteva agli atti di terrorismo, quella che ha attivamente anche compiuto i suddetti atti.
La storia di quegli anni pare avvolta da una fitta nebbia di omertà e silenzi, una nebbia costituita da processi e inchieste contraddittorie, da dichiarazioni e depistaggi, da idee e opinioni diverse, quasi mai davvero obiettive. E ora arriva questo film. Bologna 2 agosto, i giorni della collera. Bene, mi son detta. Qualcuno si è caricato di un fardello pesante. Spiegare alla mia generazione e a quelle che verranno dopo, cos’è davvero accaduto in quel neo-medioevo di piombo italiano culminato con la strage più sanguinosa avvenuta nel nostro Paese dopo la Seconda Guerra Mondiale.
«Bravi ragazzi, vi voglio così cazzuti». Manco per sogno. In questo film è ancora tutto più nebuloso della nebbia neo-medievale di piombo. Si tace tanto e troppo. Nomi, circostanze, possibilità, piste e contropiste. D’accordo, non è un documentario. D’accordo, non è un film d’inchiesta. D’accordo, è un film di finzione che non vuole svelare nessuna verità. No, invece è una paraculata che fa davvero incazzare. In questi giorni si parla di abolizione del segreto di Stato, di atti secretati e desecretati, dunque perché non sfruttare l’occasione? Basta non scavare troppo a fondo, non andare a disturbare il can che dorme. Sia mai venisse fuori qualcosa che non si è in grado di gestire o che minacci vagamente Qualcuno.
Così Giorgio Molteni (regista che si divide equamente tra Rai/Endemol/Mediaset – e ho già detto tutto) e Daniele Santamaria Maurizio fanno un film di finzione che racconta fatti veri, verissimi, utilizzando nomi inventati ed entità e parole chiave che sembrano ultraterrene, mitologiche. Il Potere. La Loggia. Il Professore. Lo Stato. La Massoneria. I Servizi Segreti Deviati. Mancavano solo ColuiCheNonPuòEssereNominato, qualche Mangiamorte e un’oscura profezia per confezionare un fantasy dalla sceneggiatura improbabile.
Non si può fare un film su un evento così, dargli un titolo così e poi pretendere di non avere nessuna responsabilità, nessun dovere. E avere addirittura la faccia tosta di farlo passare per un’operazione che vuole illuminare le giovani menti su quel che è S-tato (de)stabilizzato.
Per carità, ccccciovani. Non è con questo film che ci capirete qualcosa in più. Leggervi il riassunto su Wikipedia sarà più istruttivo, basato com’è sugli atti processuali, cosa che si limita a fare anche questa pellicola.
«Una società civile, in uno Stato davvero democratico, non può fondarsi sul silenzio, sul ricatto, sul depistaggio. Uno Stato giusto dovrebbe colpire coloro che, per salvaguardare il proprio potere, hanno costretto l’Italia a pagare un tributo di sangue e di dolore senza pari. Se questo non è ancora accaduto, c’è da chiedersi quando potremo gridare ad alta voce: “Mai più!”». Sacrosanto, eh, piazzare queste parole in un film su una strage ancora poco chiara. Se non fosse un film che si compiace delle sue omissioni, così come se ne compiacciono Molteni e compagnia bella, offendendo pure la memoria delle vittime.
Per squarciare veli ci vuole coraggio. Ci vuole perseveranza. Ci vuole la voglia di andare controcorrente e di fottersene se vengono a minacciarti sotto casa. Non ci si può accontentare della “versione ufficiale”.
Abbiamo bisogno di sapere. Abbiamo bisogno di ricordare. E non è con uno scarso sceneggiato televisivo che possiamo farlo. La stampa ci aiuterà, allora? Dalle mie parti si dice “ufò” per esprimere il concetto “aspetta e spera che poi non s’avvera”. Che è un po’ come avvistare un ufo (ufòòòòòò!). Ecco, certa stampa ormai è diventata come gli ufo, da avvistare in caso di cieli sereni. E poi è sempre qualcos’altro. «Da quando i giornalisti non fanno domande indiscrete?». Da un sacco di tempo. Pure loro asserviti alle logiche del Potere. No, volevo dire di Voldemort. O di Ufo.
Vaneggio, forse, ma la colpa è della collera. Quella che ‘sto film m’ha suscitato.
«Sto arrivando alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori materiali degli atti criminosi». Mario Amato (non si chiamava Torrisi), io ti ho ricordato, almeno con queste parole. Non con una via o un’aula di tribunale dedicata.
Non con un film che è più oscuro dell’oscurità stessa.
I morti sono morti, è vero. Ma abbiamo il dovere, la responsabilità di pensarci ancora. Sempre.