Condannati i nove poliziotti che pestarono e arrestarono un ragazzo che aveva come commesso l’unico torto di abitare dalle parti dell’Olimpico.
di Checchino Antonini
«Giustizia è stata fatta», esclama Stefano Gugliotta, in lacrime, pochi istanti dopo la lettura della sentenza. Chi lo pestò, quattro anni fa, è stato condannato a quattro anni di reclusione. Chi lo pestò lo fece senza ragione ed era (ed è) un agente di polizia. Nove in tutto, tutti celerini, gli agenti condannati, che scorazzavano dalle parti dello stadio Olimpico, alla larga dagli scontri, quel 4 maggio 2010 che Roma e Inter s’erano appena giocati la finale di Coppa Italia.
Il pm aveva chiesto tre anni per uno di loro, Leonardo Mascia e due per gli altri otto. Ma la X sezione del tribunale penale collegiale presieduta da Vincenzo Terranova ha ritenuto fossero pene troppo lievi per un fatto così grave e ha disposto che gli imputati risarciscano Gugliotta: 40mila euro la somma individuata dal collegio a titolo di risarcimento che dovrà essere versato in solido dagli imputati.
I nove celerini (Leonardo Mascia, Guido Faggiani, Andrea Serrao, Roberto Marinelli, Adriano Cramerotti, Fabrizio Cola, Leonardo Vinelli, Rossano Bagialemani, Michele Costanzo) «agendo con abuso di potere e violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione» causarono a Gugliotta «lesioni gravi» alla mandibola. Quella sera il 29enne, che è rappresentato dall’avvocato Cesare Piraino, aveva guardato la partita a casa, poi era uscito per andare alla festa di suo cugino, con un amico, a bordo di uno scooter. Ma fu bloccato dalle forze dell'”ordine” e poi arrestato per resistenza a pubblico ufficiale. Sette giorni dopo fu scarcerato. Secondo il pm, gli agenti in servizio di ordine pubblico per la partita dell’Olimpico, «in una zona non interessata agli scontri (viale Pinturicchio) e senza che ricorressero esigenze di tutela dell’ordine pubblico o di contrasto di particolare resistenza», intimavano l’alt al ciclomotore guidato dal giovane romano. Quindi l’aggressione da parte di uno degli agenti che avrebbe colpito il ragazzo al volto «schiaffi, manate e manganellate». Successivamente sono intervenuti gli altri 8 colleghi che «colpivano» il giovane «con calci, pugni e manganellate una delle quali particolarmente violenta alla testa che gli faceva perdere i sensi». La scena fu filmata da un terrazzo.
La madre di Gugliotta, suo padre, la fidanzata e alcuni amici presenti in aula si sono stretti in abbraccio non riuscendo a trattenere la gioia e dicendosi tutti «soddisfatti». «Non si può mai essere contenti quando vengono condannate delle persone specie come in questo caso se agenti di polizia – ha commentato Cesare Piraino, avvocato di Gugliotta – se l’impostazione accusatoria era corretta la pena da infliggere non poteva essere di modesta entità come chiesto dal pm». A sostenere la famiglia Gugliotta c’erano anche una delegazione del neonato nodo di Acad Roma, Lucia Uva, sorella di Pino e Claudia Budroni, sorella di Dino, entrambi uccisi durante interventi delle forze dell'”ordine”. «Noi siamo tutte unite», ha detto Claudia, dopo la sentenza. Per loro i processi sono ancora in corso, il 9 giugno riprenderà l’udienza preliminare sull’omicidio di Giuseppe Uva da parte di poliziotti e carabinieri e l’11 ci sarà quella sull’omicidio di Dino Budroni sparato da un agente sul Gra di Roma.
Alla sentenza Gugliotta è accorso anche un discreto numero di colleghi degli imputati. Anche alla scorsa udienza uno di loro aveva lanciato l’appello col cellulare, «Venite che qui ci sono solo un po’ di zecche», svelando per l’ennesima volta di che pasta è composta la subcultura dentro cui maturano i comportamenti violenti e sprezzanti di ampi settori di forze dell’ordine. Stefano è stato pestato senza motivo, aggredito in maniera vergognosa. Un abuso e basta, perpretato da uomini in divisa.
L’associazione Acad, dunque, è stata in tribunale anche oggi: «Questa presenza costante dentro e fuori le aule riteniamo sia stata fondamentale anche in questa vcenda; perchè la prima cosa che riteniamo imporante e utile è accendere i riflettori e rompere la solitudine facendo in modo che nessuno si senta solo e indifeso di fronte a questi abusi. Ma anche far vedere ai giudici, ai pm e agli avvocati che c’è un pezzo di società organizzata che osserva, documenta, unisce, denuncia in maniera pubblica tutto quello che accade fuori e dentro le prigioni, fuori e dentro i commisariati, fuori e dentro le aule. Questa è l’ambizione di Acad, crescere sempre di più come strumento collettivo per trovare verità e giustizia lì dove non ce n’è, lì dove non vogliono che ci sia».