La fabbrica non è in crisi ma chiude per fare profitti con una speculazione sui terreni. Nasce un coordinamento milanese di solidarietà.
di Marco Panaro
Un afoso sabato milanese, venti sedie in uno spiazzo asfaltato davanti allo stabilimento Marcegaglia Buildtech. Nasce così il coordinamento cittadino di solidarietà con la lotta contro la chiusura della fabbrica. Le sedie non basteranno: compagni e compagne si presenteranno in numero triplo. La sensazione, non facile da digerire, è di essere l’ultimo drappello di resistenti in una piazza d’armi assediata. Basta percorrere poche decine di metri per trovarsi di fronte allo scheletro vuoto della Mangiarotti Nuclear, industria chiusa quattro anni fa, dopo una dura lotta, per portare la produzione in Slovenia. E alle nostre spalle incombono enormi palazzi di edilizia residenziale appena costruiti. “Marcegaglia comprò i terreni su cui realizzò lo stabilimento – spiega Massimilano Murgo, leader degli Autoconvocati – dando una manciata di spiccioli ai comuni di Milano e di Sesto San Giovanni. Ora quelle aree, se destinate alla speculazione immobiliare, valgono una fortuna: sta qui la vera ragione della volontà di chiudere”. Mentra la Digos sorveglia piazzando ben sette uomini all’incrocio con viale Sarca, l’assemblea prende forma: accorrono lavoratori della fabbrica, militanti di Rifondazione comunista (tra cui Nadia Rosa, della segreteria provinciale) e di Sinistra Anticapitalista, attivisti di esperienze di autogestione come la Ri-Maflow, qualche (pochi) esponente del sindacalismo di base. La situazione della vertenza – spiega subito Murgo – è difficilissima. Molti lavoratori, forse la maggioranza, sono rassegnati ad accettare le proposte della proprietà. Che significa trasferimento a Puzzuolo Formigaro, nell’alessandrino, a centodieci chilometri di distanza. Oppure una buonuscita di trentamila euro, due anni di cassa integrazione e la perdita del posto di lavoro.
“La Fiom non ci sta”, attacca il segretario provinciale Mirko Rota. “Abbiamo proposto di individuare un’altra area nel milanese per ricollocare lo stabilimento e ci è stato risposto no. Abbiamo chiesto di trasferire il personale in esubero presso altre aziende del gruppo, operando anche attraverso contratti di solidarietà, e il rifiuto è stato totale. A queste condizioni la trattativa non può continuare”.
Occorre rompere l’isolamento in cui si trova ciascuna lotta dei lavoratori è il pensiero comune a tutti gli interventi. Dunque via al coordinamento di solidarietà, con un volantinaggio davanti ai cancelli della fabbrica già a inizio settimana. E la proposta di una marcia per il lavoro che raccolga tutte le esperienze di resistenza in corso a Milano e parli anche a chi un lavoro non ce l’ha o è coscritto nelle fila dell’esercito dei precari.
Proposta che sarà tanto più efficace se saprà coinvolgere davvero le attuali espressioni più attive della lotta di classe (e il pensiero va subito alle tante lotte nel settore della logistica), superando gli steccati di organizzazione politica e sindacale.
E questo resta un po’ il difficile a farsi per la sinistra milanese e non solo.