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Uva, Ferrulli e i ragazzi con le magliette a righe

Oggi si saprà se ci sarà un processo per la morte di Giuseppe Uva. Tre anni fa fu ucciso Michele Ferrulli. 34 anni fa la rivolta di Genova

di Checchino Antonini

Uva, Ferrulli e i ragazzi con le magliette a righe

“3 anni fa mio padre è uscito di casa e 4 ragazzini non gli hanno permesso di rientrare a casa dalla sua famiglia. Fra pochi giorni il processo sulla morte di mio padre si concluderà.

Oggi nello stesso a distanza di 3 anni, un giorno doloroso e tragico x me si deciderà se Giuseppe Uva avrà un processo. Non è un caso! Sono fiduciosa, sorella mia. Vedrai dobbiamo farcela”. Il messaggio via social di Domenica Ferrulli a Lucia Uva è il segno che anni di battaglie contro la “malapolizia” hanno sedimentato una solidarietà non effimera tra i familiari delle vittime e tra i comitati di memoria, per verità e giustizia. Una solidarietà che è diventata intelligenza collettiva e costruisce strumenti, come quello del numero verde di Acad, come l’archivio di Reti meno invisibili o, ancora, come la vertenza per l’amnistia sociale condotta dall’Osservatorio Repressione.

Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, sta prendendo parte a un presidio di solidarietà a Varese mentre prosegue in Aula l’udienza preliminare che dovrà stabilire se i sette tra poliziotti e carabinieri indagati per la morte di Giuseppe Uva, avvenuta nel giugno del 2008, avranno un processo pubblico o se questa storia dovrà essere insabbiata.

I manifestanti di Varese fanno riferimenti al movimento No Tav, alla Tavola della Pace, ad Amnesty International o, ancora, al comitato Cittadini contro la malagiustizia. Tra loro Alberto Biggiogero, l’uomo che era stato fermato dai carabinieri insieme a Uva, l’unico testimone che solo cinque anni più tardi sarebbe stato ascoltato da un pm, lo stesso che aveva stabilito che la “malapolizia” non c’entrava, che avrebbe provato a ribaltare la sua posizione. Su cartelli e striscioni si legge: ‘Siamo tutti Giuseppe Uva’ e ‘Giustizia anche per i cittadini normali’.

Nella scorsa udienza il procuratore di Varese facente funzioni Felice Isnardi aveva chiesto al gup Giuseppe Sala il proscioglimento dei poliziotti e del carabiniere dall’accusa di omicidio preterintenzionale, e il rinvio a giudizio per abuso d’autorità. Un altro carabiniere imputato ha chiesto invece il giudizio immediato. Secondo i familiari, parti civili nel procedimento, Uva avrebbe subito violenze da parte dei carabinieri, che lo avevano fermato ubriaco per strada e portato in caserma, e degli agenti di polizia intervenuti a supporto dei militari. L’uomo morì all’ ospedale di Circolo di Varese, dove era stato ricoverato con un discutibile trattamento sanitario obbligatorio. Michele Ferrulli, il padre di Domenica, aveva 51 anni, era originario di Bari ma residente a Milano dove lavorava come operaio edile. Michele con la sua famiglia occupava un alloggio in via Varsavia. Una persona mite e generosa, secondo chi lo conosceva bene, impegnato a combattere a favore degli “abusivi” delle case popolari perché ottenessero alloggi regolari e a norma di legge.

La vita di Michele si interrompe la sera del 30 giugno di tre anni fa proprio in via Varsavia. Un residente segnala alla polizia la presenza di diverse persone che, per strada, ascoltano musica ad alto volume e si abbandonano a urla e schiamazzi. Il gruppetto è composto da Michele e da due suoi amici. Intervengono due volanti.

Al loro arrivo gli agenti dichiarano di aver chiesto i documenti ma di essere stati subito insultati da Michele che li minaccia e tanta di aggredirli. I poliziotti rispondono con la forza e lo immobilizzano a terra per ammanettarlo, operazione che è durata diversi minuti, forse troppi per il cuore di Michele Ferrulli. La questura dichiara la morte per infarto. Le testimonianze dei due amici e di altre persone presenti parlano di un pestaggio da parte dei quattro agenti. Alcuni dicono che Michele veniva selvaggiamente picchiato mentre gridava ripetutamente aiuto.

Una circostanza confermata dai nuovi video diffusi dall’avvocato Anselmo, differenti dai primi per via della presenza dell’audio originale. Si sentono le urla e le invocazioni di aiuto di Ferrulli, i commenti in sottofondo, in lingua straniera, di chi in quel momento stava girando le immagini e si possono nitidamente vedere i colpi di manganello e i pugni.

Il 3 luglio sarà pronunciata la sentenza di questo caso. Il pm, il 3 giugno, ha chiesto sette anni ciascuno per i quattro agenti imputati spiegando che fu «Una violenza gratuita e non giustificabile». Quattro contro uno, più vecchio di loro e già a terra, malconcio. E’ il minimo della pena ma è il doppio di quanto fu chiesto, e ottenuto, per i quattro agenti che in circostanze analoghe ammazzarono Federico Aldrovandi. Omicidio preterintenzionale e di falso in atto pubblico secondo un copione che si ripete troppo spesso nei “film” che hanno come protagonisti poliziotti e carabinieri.

I quattro agenti, secondo l’accusa, durante il fermo dell’uomo lo pestarono di botte. Secondo il pm, Ferrulli subì «una violenza gratuita e non giustificabile» da parte degli equipaggi delle due volanti intervenute in seguito alla chiamata di un cittadino infastidito dagli schiamazzi Durante la sua ricostruzione in aula, il magistrato ha sottolineato che il 30 giugno di tre anni fa «l’intervento dei poliziotti è stato sempre sopra le righe, mentre Ferrulli aveva un atteggiamento non aggressivo nei loro confronti». Inoltre ha affermato che l’uomo «subì percosse» e gli agenti «agirono in quattro contro una persona più anziana di loro, che era prona, bloccata a terra e invocava aiuto». Gli agenti delle volanti, invece, hanno sempre sostenuto – nonostante i verbali falsificati – di aver agito correttamente, in quanto secondo le loro ricostruzioni l’uomo era «ubriaco e aggressivo», e stava opponendo resistenza all’arresto. Il pm si è soffermato anche sulle cause del decesso di Ferrulli, che era affetto da ipertensione e, secondo quanto è emerso dalle perizie, morì a causa di una ‘tempesta emotiva’ che ha provocato l’arresto cardiaco. «Se io butto a terra una persona e infierisco – ha aggiunto Ruta – posso fargli molto male, e a questa persona può venire un infarto, anche se è una conseguenza di certo non prevedibile». «Non ci vuole uno scienziato per capire che se una persona dice ‘basta, la testa basta’, bisognava smetterla lì».

Quindi la morte di Ferrulli è dovuta «anche al comportamento dei poliziotti» che, in seguito all’episodio, produssero una «documentazione di servizio falsa, per cercare di dare una rappresentazione edulcorata della vicenda». «Gli imputati dicono che la loro attività era coerente con l’ammanettamento di una persona che opponeva resistenza – ha proseguito il pm – ma questa rappresentazione stride con quanto hanno detto i testimoni che hanno visto i poliziotti agire con violenza». Inoltre il fatto che gli agenti possano aver utilizzato un manganello per colpire Ferrulli, eventualità negata dagli stessi imputati, «rischia di essere un falso problema», perchè «si può fare molto male a una persona anche solo colpendola con i pugni, senza usare corpi contundenti».

A guardare il calendario oggi è anche l’anniversario del 30 giugno 1960 quando la polizia impazzì, a Genova, contro giovani operai ed ex partigiani che contestavano il congresso del Msi nella città medaglia d’oro per la Resistenza. La stessa polizia che pochi giorni dopo avrebbe sparato e ucciso, il 7 luglio, cinque operai di Reggio Emilia. La strage fu l’apice di una escalation di violenza onnescata dal governo Tambroni, monocolore democristiano con il determinante appoggio esterno del Msi che ebbe in cambio soldi per la sua stampa e la concessione di Genova come sede del congresso. L’indignazione provocò una grande mobilitazione popolare. Tambroni, diede libertà di aprire il fuoco in “situazioni di emergenza” ed alla fine di quelle settimane drammatiche si contarono undici morti e centinaia di feriti.

Popoff vuole essere uno dei luoghi dove sia possibile leggere il filo rosso tra quell’intelligenza collettiva che chiamiamo antifascismo e quella solidarietà di cui Domenica, Lucia e tutte/i gli/le altre/i sono portatori e testimoni. Perché la sottocultura che promuove la strage di cittadini caduti sotto i colpi delle forze dell’ordine è la stessa del 30 giugno di 34 anni fa.

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