«I media internazionali ripetevano a pappagallo i comunicati stampa dei militari israeliani». «Sparavano anche sulle ambulanze». In un’intervista l’attivista italiano racconta l’oppressione israeliana.
Per nove anni ha svolto lavoro umanitario nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Il brianzolo Vittorio Arrigoni è stato l’occidentale più amato dal popolo palestinese. Ramallah, Betlemme, Jenin, Gaza City sono costellate di murales in ricordo del pacifista italiano.
Arrigoni è stato rapito e assassinato da un commando di sedicente gruppo jihadista salafita. Il giorno della sua morte a Gaza è stato dichiarato il lutto nazionale e migliaia di persone sono scese in strada per onorargli un tributo.
Forse nessuno come Vittorio Arrigoni ha saputo raccontare la sofferenza dei palestinesi di Gaza. Il suo racconto in un’intervista datata aprile 2011, pochi giorni prima della sua morte.
Durante le tre settimane di massacro, i vertici militari israeliani hanno continuato a diramare comunicati stampa, che poi venivano ripetuti a pappagallo dai maggiori media internazionali. Comunicati che parlavano di obiettivi mirati, di bombardamenti a ipotetiche basi terroristiche di Hamas o magazzini di arsenali, quest’area in particolar modo di Gaza City. C’è stata la completa distruzione di decine, di centinaia di abitazioni. Secondo dati delle Nazioni Uniti, ventunmila edifici sono stati danneggiati o completamente distrutti e centomila palestinesi di Gaza sono rimasti senza tetto, molti dei quali a tutt’oggi vivono in tendopoli, come questa. Uno scenario che ricorda molto la tragedia palestinese del 1948, quando in seguito a una pulizia etnica migliaia di palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro terre.
Questi palestinesi che nella loro casa avevano riposto tutti i loro averi. Vedersela distruggere da una furia devastante, come quella di cui siamo stati testimoni durante quel massacro.
Si parla tanto di ricostruzione. Ma Israele sigillando i valichi non permette il passaggio del cemento, del ferro e neanche del vetro. Per cui, queste persone vivono alla giornata in queste tende, sapendo che la loro casa se resterà la situazione attuale non verrà più ricostruita.
Si dice che la verità è la prima vittima di una guerra. Non è mai stato così reale come qui a Gaza. Se pensiamo che tra i primi obiettivi dei bombardamenti ci sono stati reti satellitari, ripetitori telefonici e soprattutto la Striscia di Gaza era chiusa a qualsiasi giornalista internazionale.
Noi che siamo attivisti per i diritti umani ci siamo dovuti trasformare in reporter, in giormalisti, per raccontare ciò che di tragico ci stava attorno, di cui eravamo testimoni. Vale a dire una strage di massa di civili.
La sede delle Nazioni Unite è andata in fiamme dopo un bombardamento al fosforo bianco. Centinaia di tonnellate di alimenti sono andati in fumo in poche ore.
A un certo punto anche la nostra coordinatrice, che è Netta Golan, ebrea israeliana scampata all’Olocausto, più che consigliato ci ha ordinato di scendere dalle ambulanze, altrimenti saremmo stati uccisi.
Purtroppo molt del peronale medico che lavorava con noi sulle ambulanze è morto durante quel massacro. In particolare ricordo un amico dell’ospedale al Awda. Si chiamava Ashwaf, è stato falciato da una mitragliatrice al centro di Gaza City mentre raccoglieva due corpi di civili, anch’essi uccisi a sangue freddo da cecchini israeliani.
Due nostri compagni uccisi qui a Gaza. Rachel Cori schiacciata da un bulldozzer israeliano mentre cercava di difendere l’abitazione di un dottore. Tom Handle ucciso con un colpo alla testa da un cecchino israeliano mentre accompagnava dei bambini all’uscita di una scuola.
Le leggi internazionali riconoscono a venti miglia dalla costa acque a sovranità palestinese. Nonostante ciò, i pescatori palestinesi a tutt’oggi, se vanno oltre tre miglia dalla costa, ma molto spesso basta un miglio dalla costa, molto spesso anche mezzo miglio dalla costa, vengono assaliti da navi da guerra israeliane che trivellano di colpi le loro imbarcazioni.