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Da Kiev a Gaza, la pace può attendere

Considerazioni a margine di due conflitti apparentemente diversi e distanti a dieci giorni dall’inizio dell’attacco di terra a Gaza e dall’abbattimento del jet malese

di Maurizio Zuccari

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Sono passati dieci giorni dall’abbattimento del jet malese sui cieli di Donetsk e dalla guerra di terra scatenata da Netanyahu nella Striscia di Gaza e qualche riflessione s’impone sulla natura dei due conflitti e i punti di contatto tra fatti apparantemente diversi e distanti. Come tutte le guerre, quella in Ucraina – letteralmente, terra di confine – orientale e l’altra nella striscia di territorio palestinese trasformata nel più grande lager a cielo aperto del mondo non si spengono a comando, come s’illudono i falchi di ogni latitudine e i comandanti in campo ignari di storia e peggio di geografia. Nelle viscere d’una guerra civile come l’una o fratricida come l’altra scorrono odi atavici, rinfocolati dai rispettivi sostenitori “super partes”. Le lotte intestine non si spengono mai, sono destinate a riaccendersi a ogni soffio di vento e fornitura d’armi. Fino all’esaurirsi fisico dei contendenti e, quando l’eliminazione di una delle parti non è possibile, a una sorta di stallo che ripropone grosso modo lo status quo ante. Entrambi combattute per uno straccio di terra nell’era postatomica, frammentano la geografia globale delle guerre infinite per le risorse energetiche a cui si frappongono odi (inter)nazionali.

 

Sono da poco passate le 16 del 17 luglio, ora locale, quando un Boeing 777 della Malaysia Airlines cade al confine con la Russia. Era in volo da Amsterdam a Kuala Lumpur con 280 passeggeri e 15 membri d’equipaggio. Nessun superstite. A diecimila metri gli aerei non si tirano giù a colpi di cerbottana: servono competenze, armi (missili terra aria o aria aria che siano) e conoscenze (rotte e orari) che difficilmente una casualità può colmare. Tralasciando i rimpalli di responsabilità che si susseguono tra Kiev e Mosca, due sono i casi ma la domanda è una: qui prodest, a chi conviene? O l’abbattimento fortuito, tipo Ustica, del jet malese, o l’atto deliberato, volto a riaccendere i riflettori su un confronto che Kiev non sa vincere e Donetsk non può vincere, e nel contempo spegnerli dallo scenario mediorientale dove alla guerra dall’aria sta per subentrare la guerra da terra. Nessuna operazione militare degna di questo nome si compie senza considerare i palinsesti, nessun atto di guerra di questo tipo può aver visto i servizi coinvolti nell’operazione agire isolati. A pensar male si fa peccato, diceva un gobbo di questo paese, ma spesso ci si azzecca.

 

I Merkava israeliani stanno scaldando i motori quando a Shaktiarsk le squadre filorusse raccolgono cadaveri e lamiere dai campi. Entrano nella Striscia in tarda serata, e il primo a finire sotto i loro cingoli è un neonato di cinque mesi, ma notiziari della sera e prime pagine non sono per loro: a rubargli la scena è l’incredibile abbattimento di un aereo civile su una rotta considerata sicura, sui cieli di una guerra civile europea che l’Europa finge d’ignorare. L’obiettivo dichiarato di Netanyahu e dei suoi falchi è farla finita coi razzi che Hamas sparacchia contro Israele senza fare gran danno, intercettati dall’Iron dome gentilmente offerta dall’alleato statunitense, come il migliaio di volontari regolarmente inquadrati tra le file dell’esercito israeliano a stanare i miliziani palestinesi dai loro bunker. Questo è l’altro obiettivo dichiarato che oltre duemila raid aerei dall’inizio delle operazioni non neutralizzano.

 

Ma l’intenzione di Tel Aviv è di farla finita una volta per tutte con Hamas. L’accordo di aprile con Fatah che governa in Cisgiordania, dopo anni di guerra civile, per un governo congiunto nei Territori, è un boccone troppo amaro e il vero motivo scatenante la guerra, massacro degli adolescenti d’ambo le parti a parte. I crimini contro l’umanità inferti al popolo palestinese che ogni organizzazione umanitaria denuncia e il Palazzo di vetro fatica a vedere non sono danni collaterali, ma strategia di guerra. Necessaria a piegare Hamas, che peraltro vede ricompattarsi attorno a essa le file degli oltranzisti, alienandogli le simpatie di una popolazione tenuta in ostaggio nel territorio di quaranta chilometri per dieci, nella sua estensione massima, con un paio di milioni d’abitanti e una densità abitativa quadrupla rispetto a New York. Netanyahu non può fermarsi senza aver ottenuto qualche risultato che non sia di facciata, se non questo, mentre il resto del mondo si trastulla nel negare il genocidio in atto. La pace può attendere.

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