Nel 2014 accade che i caporali scelgano gli schiavi sulle rotonde, sin dalle prime ore del mattino. Accade nelle province di Napoli e Caserta. Anche grazie al loro sfruttamento i successi del Made in Italy.
di Mario Conforto
A Sant’Antimo, paese dell’hinterland napoletano, vive una comunità di bengalesi, quasi tutti impiegati nell’industria tessile. Lavoratori che, in alcune fabbriche, subiscono condizioni di vera e propria “schiavitù”. Gianluca Petruzzo portavoce di Napoli dell’”Associazione 3 febbraio” ha dichiarato: «Turni di quattordici ore al giorno con un padrone, anch’esso bengalese, che costringe gli operai a lavorare per meno di tre euro. Questo stesso padrone usa, per ricattare gli immigrati, sequestrare il loro passaporto così da non potersi muovere e cercare lavoro altrove. Non si tratta, stavolta, dei braccianti di Rosarno o dei capannoni fatiscenti alle porte di Prato: in questo caso è l’industria tessile locale a imporre turni massacranti ai cittadini bengalesi, sfruttati nelle aziende. Tra l’altro vivono in veri e proprie stalle: dieci/dodici persone ammassate in piccole stanze le quali ne possono contenere al massimo quattro e spesso anche i bambini vivono in tali situazioni».
Nel comune di Caserta vi è una struttura abbandonata che è gestita da una serie di associazioni. Essa è tra le più attive sul territorio per le problematiche degli immigrati. Dà consulenza legale, psicologica e assistenza sociale. È molto frequentata. Due volte a settimana “rifugiati” e “migranti” frequentano questo luogo. Provengono soprattutto dalla provincia di Caserta e anche da Napoli. In questo luogo, le associazioni, si riuniscono, discutono e redigono i progetti sulle seguenti tematiche: reddito minimo di inserimento, formazione nel modo del lavoro e diritto di cittadinanza.
Alcuni volontari hanno spiegato che i datori di lavoro sono alla ricerca di lavoratori che eseguano mansioni poco qualificate. I migranti vanno sulle rotonde o piazze sin dalle prime ore del mattino. Alle quattro. In attesa di essere scelti per una giornata di lavoro agricolo. Oppure lavori di imbiancatura, giardinaggio e pulizie. Alcuni immigrati definiscono le piazze: “Kalifoo grounds”. Da noi, invece, piazze degli “schiavi”.
Una delle responsabili, Mimma D’Amico, di recente, però, ha criticato pubblicamente la Regione Campania: «Oggi, grazie al nostro progetto denominato, Svnr (sfruttati, vulnerabili, non rimpatriabili), sono stati regolarizzati ottocento persone con permesso di soggiorno. Solo che la giunta Caldoro non ha stanziato i fondi per la formazione e la retribuzione minima per sei mesi. Ciò poteva consentire agli immigrati di apprendere un mestiere. Per evitare che molti di loro ritornino a vendere ai semafori o aspettare il caporale alle rotonde».
Fuori, in tanti, aspettano il loro turno per parlare con un avvocato, uno psicologo, un assistente sociale. Un immigrato, della Costa d’Avorio (che come tutti gli altri immigrati che Popoff ha intervistato ha chiesto l’anonimato) ha detto: «Al momento sono senza lavoro. Ogni mattina cerco lavoro alle rotonde. Esco alle quattro e trenta, arrivo alla fermata del bus alle cinque e, giungo alla rotonda di Licola o a quella di Giugliano nella Provincia di Napoli. Aspetto che qualcuno arrivi e mi prenda a lavorare ma siamo in tanti. Quello che arriva prima alla macchina va a lavorare». Il potere di contrattazione, sulle rotonde, è praticamente inesistente da parte degli immigrati. Devono accettare qualsiasi condizione.
«Accetto qualsiasi lavoro – ha affermato un ragazzo del Ghana – e la paga standard, per una giornata di lavoro di dieci/dodici ore, è di venti/trenta euro». Mentre un giovane, originario della Nigeria, da due anni in Italia, ha dichiarato: «In quest’ultimo periodo ho lavorato dalle sei del mattino alle sei di sera con una pausa di venti minuti a zappare un campo. Mi hanno dato solo venti euro. E Se la paga non ti piace ci sono altri che prendono il tuo posto».
Il lavoro che si svolge non offre nessuna garanzia in termini di sicurezza, igiene e previdenza sociale. Un migrante del Burkina Faso ha descritto tale situazione: «Quando non hai i documenti ti danno solo “lavoro nero” che è mal pagato. E quando ci feriamo non prendiamo niente». I mancati pagamenti sono comuni un po’ a tutti. È un fenomeno diffuso. A causa della natura del lavoro disponibile sulle rotonde spesso l’identità del datore di lavoro è sconosciuta; ciò rende estremamente difficile ottenere la paga dovuta e a volte anche non pagata. Un tunisino ha spiegato cosa gli è successo: «Molti lavoratori migranti non vengono pagati. Una volta ho trovato lavoro per una settimana. Il datore di lavoro mi doveva duecentocinquanta euro, ma era sparito. Non sapevo come si chiamava e né sapevo dove trovarlo».
Un altro lavoratore del Ghana: «A volte ci si mette d’accordo per venticinque/trenta euro, ma alla fine della giornata ti danno quindici/venti euro soltanto. A me è successo tre o quattro volte. Due volte è accaduto che il datore di lavoro mi aveva detto di tornare il giorno dopo per essere pagato. Il giorno dopo non era più sul posto e quindi non sono stato pagato».
I migranti in Campania nel 2013 erano duecentotrentacinquemila. Nel 1996 erano quarantaseimila; un quinto. Abitano per lo più a Napoli, sono arrivati dopo il 2000 e sono per la maggior parte donne. Questo emerge dalla ricerca “Caratteristiche e condizioni di vita degli immigrati in Campania” realizzata dalla cooperativa Dedalus. In una Regione dove vi è una significativa incidenza del lavoro irregolare, il quindici per cento del campione degli immigrati maggiorenni ha dichiarato di essere senza lavoro. Il tasso più alto di disoccupazione, il venti per cento, si registra tra gli albanesi; seguono marocchini e srilankesi, con il diciassette per cento; romeni e bengalesi con il quindici per cento.
La nuova schiavitù, secondo le recenti stime, di uno studio curato dall’osservatorio Placido Rizzotto e da Flai-Cgil, interessa circa quattrocentomila lavoratori in Italia; sessantamila dei quali sono costretti in alloggi di fortuna sprovvisti dei requisiti minimi di vivibilità ed agibilità. Il caporalato genera un business che in Italia è di circa dieci miliardi di euro all’anno. Il “nero” in agricoltura è diffuso in tutto il Paese e incide per il novanta per cento del lavoro agricolo nelle regioni del Mezzogiorno; per il cinquanta per cento nelle regioni del Centro e per il trenta per cento del lavoro agricolo del Nord. Frutta, verdura, pomodori e mele i prodotti che si raccolgono.
Il meccanismo è ormai oleato: prima dell’estate le aziende che lavorano le angurie assumono i caporali. Questi si occupano di contattare le squadre di immigrati. Il caporale ne può gestire ogni giorno fino a cinque/sei. Ogni squadra è composta al massimo da dieci persone. Nell’agro casertano, c’è un triangolo di fuoco per il caporalato che si estende tra i comuni di Villa Literno, Castel Volturno e Casal di Principe. Ma, ultimamente il fenomeno si è diffuso anche nell’alto Casertano, nella zona di Sessa Aurunca.
Jamal Qaddorah, responsabile immigrati della Cgil Campania, ha fatto notare che da queste parti c’è stata un’evoluzione dei caporali: prima erano italiani e, di diretta espressione dei clan. Ora la camorra lascia quest’incarico direttamente agli immigrati, i quali, a loro volta, pagano una tangente. «Ho conosciuto un caporale rumeno», ha raccontato il sindacalista, «che sosteneva addirittura di essere un benefattore. Il proprietario dell’azienda paga il caporale quaranta euro. La paga dei braccianti è al massimo di venticinque euro. La cosa più grave è che il fenomeno da queste parti è percepito come normale. È aberrante ma è così. Siamo riusciti, addirittura, dopo alcune denunce, a trovare lavoratori in catene. Legati gli uni con gli altri a lavorare nei campi. O come un lavoratore polacco che di giorno lavorava nei ristoranti e di notte era un guardiano. Fu portato all’ospedale a causa di gravi ustioni. Il suo padrone gli gettò acqua bollente pur di farlo lavorare. Un altro fenomeno che abbiamo riscontrato è che, a seconda delle stagioni, i lavoratori si spostano in varie regioni a raccogliere i prodotti autoctoni fino al nord d’Italia».
Sono circa trecentocinquantacinque i caporali arrestati o denunciati negli ultimi due anni di cui duecentoottantuno solo nel 2013. Secondo le mappe sono circa ottanta gli epicentri dello sfruttamento dei caporali; in cinquantacinque di questi sono stati riscontrati condizioni di lavoro indecente o gravemente sfruttato. Più del sessanta per cento dei lavoratori e delle lavoratrici sono state costrette a lavorare sotto caporale. La maggior parte degli stranieri extra comunitari e, tra quelli comunitari, non ha accesso ai servizi igienici e all’acqua corrente. Più del settanta per cento presenta malattie non riscontrate prima dell’inserimento nel ciclo del lavoro agricolo stagionale.
Poi ci sono le intollerabili tasse, obbligate dai caporali, che gli immigrati pagano. I lavoratori impiegati dai caporali percepiscono un salario giornaliero inferiore di circa il cinquanta per cento di quello previsto dai contratti nazionali e provinciali di lavoro. A questo bisogna aggiungere le “tasse” da corrispondere ai caporali dovute al trasporto (circa cinque euro), all’acquisto di acqua (un euro e cinquanta centesimi a bottiglia) di cibo (tre euro e cinquanta centesimi per un panino) e commissioni varie dovute all’impossibilità di accedere ai beni di prima necessità come il cibo e i medicinali. In molti casi, soprattutto al Mezzogiorno, i lavoratori sono costretti anche a pagare l’affitto degli alloggi fatiscenti nei tantissimi ghetti.
La tv francese “France 2” ha mandato in onda, l’anno scorso, un’inchiesta, dal titolo “Les récoltes de la honte” (I raccolti della vergogna), sulle condizioni di lavoro e di vita dei braccianti stranieri impiegati in Puglia, Campania, Calabria, Basilicata e Sicilia nella coltivazione e lavorazione di prodotti agricoli venduti dalle catene di supermercati francesi, come Auchan, Carrefour e Leclerc. Il caporalato e gli abusi sui raccoglitori di pomodori in Puglia e Campania sono stati oggetto di una campagna di denuncia anche sui media norvegesi, tanto da spingere sindacati e catene di supermercati di quel Paese a prendere dei provvedimenti. In Gran Bretagna avevano fatto molto discutere due inchieste del mensile “The Ecologist”. La prima, nell’agosto 2011, che descriveva la filiera dei pelati raccolti in Basilicata da braccianti africani e trasformati da aziende quali Conserve Italia e La Doria. I pomodori arrivavano ai supermercati britannici (Sainsbury’s, Waitrose, Tesco, Morrison’s). La seconda, del febbraio 2012, raccontava la situazione di Rosarno e, interpellava direttamente la “Coca Cola”, affinché si conoscessero i prezzi imposti ai commercianti calabresi per l’acquisto delle arance per la produzione della “Fanta”.