Lavorano in miniera, nelle fabbriche, nelle campagne, tra l’immondizia, come venditori ambulanti. Secondo Save the Children, in Italia i bambini sfruttati sono più di uno su venti.
di Claudio Alessandro Colombrita
«Ho sette anni, raccolgo cibo e materiali nella spazzatura per la mia famiglia», a parlare è Samia, una bambina del Bangladesh, uno dei Paesi più poveri al mondo, in cui ventisei milioni di bambini vivono sotto la soglia della povertà. È il simbolo della Giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile, voluta con forza dall’Unicef che, da anni, si impegna per tirare fuori da queste realtà proprio i bambini come Samia. Vive in un Paese dove ben quattro milioni e mezzo di bambini vengono sfruttati in settori ad alto rischio quali l’edilizia, le riparazioni meccaniche ed elettriche, le fabbriche di tabacco, la raccolta dei rifiuti e la guida dei risciò. I diritti di essere bambini, di andare a scuola, di scorrazzare sui prati con i propri amici, di ridere spensierati per piccole cose si volatilizzano in un attimo in Bangladesh e in molte altre realtà del mondo, realtà di minori lavoratori, sfruttati e sottoposti ad un duro stress proprio nel periodo più fragile della loro vita.
Secondo le stime 2012 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, sono centosessantotto milioni i bambini lavoratori nel mondo; di questi, ottantacinque milioni di età compresa tra i sette e i diciassette anni svolgono lavori pericolosi che hanno conseguenze sulla loro salute, la loro sicurezza e il loro sviluppo.
In termini assoluti, la regione Asia-Pacifico ha registrato (nel 2012) il maggior numero di bambini lavoratori di età compresa tra cinque e diciassette anni (settantasette milioni e settecentomila), rispetto ai cinquantanove milioni dell’Africa Subsahariana e ai dodici milioni e mezzo dell’America Latina e Caraibi. L’Africa subsahariana ha la più alta incidenza di lavoro minorile, con un bambino lavoratore su cinque. Tra i bambini lavoratori di questa fascia, nel 2012, il cinquantanove per cento è stato impiegato nel settore agricolo, il trentadue per cento nei servizi (di cui il sette per cento circa nel lavoro domestico) e una percentuale leggermente superiore nell’industria. I ragazzi coinvolti in attività pericolose sono più numerosi (cinquantacinque milioni) delle ragazze (circa trenta milioni); i ragazzi della fascia più alta di età, che va dai quindici ai diciassette anni, rappresentano il cinquantacinque per cento (quarantasette milioni e cinquecento mila) di tutti coloro che sono coinvolti in attività pericolose.
Perché il fenomeno ha ancora una portata così ampia? Quali sono le difficoltà che impediscono l’applicazione delle norme della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, creata dall’Onu nel lontano 1989?
In molti Paesi del Golfo, dove le corse di cammelli sono uno sport tradizionale, bambini piccoli vengono obbligati a fare i fantini di cammelli con un alto rischio di morte Ahmed, in Qatar, è un beduino “custode” dei ragazzini, ed è stato, in passato, un piccolo fantino di cammelli: «Il sanguinamento dovuto alla costante pressione sul sedere e lo schiacciamento dei genitali è comune ed indescrivibilmente doloroso. La maggior parte dei fantini diventa impotente a causa dell’attrito e non esiste nessuna cura medica».
La povertà è la causa principale del lavoro minorile. In un contesto di difficoltà economiche familiari, è fisiologico che tutti i componenti del nucleo debbano contribuire. Poi c’è la mancanza di percorsi educativi validi, all’interno di un contesto sociale, può portare a vedere il lavoro come unica strada percorribile, sin dalla tenera età. Le disuguaglianze strutturali di genere, casta, ceto sociale, religione e disabilità, sono un’altra componente importante. Ci sono infatti discriminazioni che portano all’esclusione di lavoratori di una determinata razza per particolari impieghi.
La diversa considerazione dell’infanzia tra Occidente e Oriente, incide sul lavoro minorile. In Occidente, infatti, generalmente, l’infanzia è considerata un periodo in cui andare a scuola e giocare. In Oriente l’attività lavorativa viene vista come lo strumento ideale per l’apprendimento e l’educazione del minore.
Una bambina dello Yemen, a soli tredici anni, lavora come venditrice ambulante circa dieci ore al giorno, sette giorni alla settimana. Inoltre, prima di uscire la mattina e dopo essere rientrata, aiuta la madre nei lavori domestici. Dice di avere sempre dolori dovuti al lavoro e di essere stata malata e infortunata nell’ultimo anno.
I cosiddetti “bambini di strada”, abbandonati o scappati dai propri genitori, sono preda facile, perché, alla naturale debolezza dovuta all’età, aggiungono lo smarrimento per l’assenza di punti di riferimento. Infine la particolare conformazione fisica e psichica del minore che, per i padroni senza scrupoli, è maggiormente adatta ad alcune mansioni specifiche. Il minore è piccolo, sgusciante ma anche più facilmente malleabile, non può avanzare pretese e spesso non conosce quale siano i suoi diritti.
In Pakistan, i fratelli Mohen e Nihal lavorano al telaio per tappeti da quando avevano rispettivamente quattro e cinque anni per il fabbisogno della famiglia: «Rischiamo di tagliarci le dita e passiamo giornate intere a lavorare. Spesso due giorni in una stessa settimana dobbiamo lavorare tutto il giorno e la notte. Mohen è sempre depresso e distrutto dalla fatica a causa delle molte ore di lavoro e cerca di scappare. Allora il capo tessitore gli sta addosso e non lo lascia muovere per tre o quattro giorni», è il loro racconto disperato.
Non tutti i minori lavoratori sono però sfruttati. Molto dipende dal territorio, dalle condizioni in cui vengono svolte le attività lavorative e dalla tipologia di esse.
Saima in Bangladesh era costretta a rovistare nei sacchetti dell’immondizia alla ricerca di qualcosa da mangiare o da poter vendere. In molte altre parti del mondo i bambini sono costretti per diverse ore al giorno a raccogliere frutta e verdura, percependo una paga, a fine giornata, che non permette loro di mettere sotto i denti nemmeno uno di quei frutti e di quelle verdure. Le grandi multinazionali sono sotto accusa per l’utilizzo di bambini che passano giornate intere a cucire palloni, con cui giocheranno altri bambini “liberi”, o abiti che di certo non vestiranno le loro spalle spesso rachitiche o scarpe, che non proteggeranno i loro piedi, nudi e a contatto continuo con la sporcizia.
Per non parlare poi della problematica dei “bambini soldato” che, al posto di una pistola giocattolo, si trovano tra le mani una vera e propria arma. Infine sono sempre più diffuse la schiavitù, la prostituzione e i traffici illeciti. Delle attività paragonabili a schiavitù e delle forme più gravi di sfruttamento minorile si occupa lotta alla schiavitù che coopera con le organizzazioni di tutto il mondo e che ha raccolto le storie di bambini e ragazzi sfruttati in ogni parte del globo.
A Bangkok, il piccolo Jook, di dieci anni, spesso salta la scuola per andare al fiume con gli amici a catturare le tartarughe. Le cattura e le vende al mercato. Lavora per un paio di ore e guadagna meno di cinquanta centesimi di dollaro: «Non è difficile, ma qualche volta mi ferisco i piedi sui chiodi del molo o sto male a causa dell’acqua che è molto inquinata». D’altronde Jook deve lavorare per forza, la madre è sieropositiva e non lo può fare.
Siamo molto lontani dall’unica categoria di bambini lavoratori accettata da Unicef e strutture del commercio: «Quelli che aiutano all’interno della famiglia contadina o artigiana che lavora in proprio, purché per poche ore e si tratti di attività non pericolose per la crescita e sia possibile andare a scuola. Un lavoro autorganizzato o in famiglia (contadina o artigiana), che non interferisca con l’istruzione scolastica, con i momenti di divertimento o di riposo, che favorisca lo sviluppo fisico, mentale e sociale del bambino è positivo. A volte qualche ora di lavoro serve per pagarsi la scuola».
Lavoro e minori non sono dunque due concetti antitetici, come sostenuto con forza anche dai movimenti Nats, associazioni di bambini e adolescenti lavoratori che, col supporto di educatori, rivendicano i propri diritti sociali nel territorio. Essi affermano che «il lavoro, quando svolto in condizioni di diritto e dignità, con modalità che non ledano lo sviluppo fisico e psicologico e l’integrazione sociale del minore, può essere un mezzo di sviluppo e crescita del soggetto, anche se si tratta di un bambino».
L’Italia, benché con cifre inferiori rispetto ai Paesi in via di sviluppo, non si sottrae a questo fenomeno. Secondo un’indagine condotta da Save the Children e l’Associazione Bruno Trentin, sono più di uno su venti i minori sotto i sedici anni coinvolti nel lavoro minorile. Il 5,2 per cento fa parte della fascia sette-quindici anni per un totale di circa duecentosessantamila giovani. La maggiore concentrazione al sud, con i picchi più alti in Sicilia e nelle province di Foggia e Vibo Valentia mentre nelle grandi città e al nord il rischio è basso.
Da un’indagine condotta facendo riferimento ai minori entrati nel circuito penale, è emerso che il 66 per cento di essi ha svolto attività lavorative precoci, nel 73 per centodei casi si tratta di giovani italiani; mentre il restante 27 per cento è rappresentato per lo più da ragazzi di origine straniera, nati in Italia o arrivati in diverse fasce di età. La maggior parte degli intervistati (più del sessanta per cento) ha svolto attività di lavoro precoce tra i quattordici e i quindici anni. Tuttavia, più del quaranta per cento ha avuto esperienze lavorative al di sotto dei tredici e circa l’undici per cento ha svolto delle attività persino prima di avere undici anni.
Basilare la differenza che emerge con altri Paesi più poveri: la maggioranza dei ragazzi, infatti, afferma di lavorare per far fronte alle proprie spese personali e non per aiutare la famiglia e inoltre sono più quelli che lavorano per altri rispetto a quelli che lavorano per i propri parenti.
I settori dove i minori sono impiegati per la maggiore sono: le attività di ristorazione, di vendita, quelle svolte in cantiere e in campagna. Tuttavia, si tratta spesso di lavoro sommerso, che di certo non ha quella valenza educativa e di inserimento sociale che dovrebbe avere.
Occupandosi di minori che vivono in situazioni di rischio, da anni Save the Children entra in contatto con bambini e adolescenti coinvolti nelle peggiori forme di sfruttamento del lavoro. «Si tratta di un fenomeno grave che, in una misura piuttosto rilevante, è presente anche in Italia e che quindi Save the Children ha deciso di indagare, contribuendo a colmare un vuoto di dati in materia», dichiara Claudio Tesauro presidente di Save the Children Italia.
Per minore sfruttato si intende quello che lavora in fasce orarie serali o notturne (dopo le venti); svolge un lavoro continuativo (che interferisca con almeno due delle seguenti condizioni: interruzione della scuola, minore rendimento scolastico, minore tempo a disposizione per il divertimento con gli amici e per riposare; o ancora che lo stesso lavoro venga definito moderatamente pericoloso).
«Occorre realizzare un percorso educativo per il minore, promuovere e garantire le risorse necessarie per attivare in modo sistematico e continuativo le opportunità formative e di inserimento lavorativo per tutti i minori che sono all’interno del circuito penale», spiega il direttore dei programmi Italia-Europa di Save the Children Italia Raffaela Milano.
Le associazioni di volontariato, come Unicef e Save the Children, svolgono da sempre il compito di creare quei sistemi di protezione sociale necessari per tirare fuori questi bambini dallo sfruttamento lavorativo, attraverso la costruzione di scuole e la creazione di percorsi lavorativi che rappresentano un’irripetibile occasione per garantirsi un futuro.
I Paesi non sono ancora pronti a rispondere alle sollecitazioni delle onlus, come la creazione dei dieci principi (Children’s Rights and Business Principles), voluti da Unicef Italia, fondazioneGlobal Compact NetworkItalia e Save the Children e che mirano a rafforzare l’impegno delle aziende nel rispettare e promuovere i diritti dei bambini nei luoghi di lavoro, nei mercati e nelle comunità di riferimento.
Sono sconvolta al pensiero che bimbi non ancora adolescenti vengano sfruttati in modi che probabilmente neppure persone adulte riuscirebbero a sopportare, e ancora più sconvolta al pensiero che siano le stesse famiglie di questi bambini ad autorizzare un simile trattamento, al solo scopo di ricevere qualche soldo in più a fine giornata (per non parlare di altri casi gravissimi di sfruttamento a cui, francamente, non riesco neanche a pensare perchè sono cose per me, mamma di due bambini, inconcepibili addirittura). Non conosco la situazione politica e sociale di paesi come il Bangladesh ma penso che se non sono le stesse autorità di quei paesi ad assumere un certa posizione nei confronti di questo genere di sfruttamento, intollerabile sotto ogni punto di vista, debbano essere le potenze occidentali più “evolute” a dover cominciare una politica forte contro questo fenomeno (che ho letto esiste, anche se in misura minore, anche nel nostro paese – e comunque anche questo aspetto è sconcertante). Si parla di tante cose vuote e inutili, su alcuni argomenti siamo addirittura sottoposti a una specie di bombardamento mediatico, cose che non sono nulla al confronto di questo problema. Bisognerebbe parlarne di più, in programmi televisivi, nelle stesse scuole; non basta qualche immagine sconvolgente passata per televisione (quelle che mostrano numeri di telefono ai quali chiamare per fare donazioni, ecc., che poi non sappiamo neppure se si tratta di numeri di associazioni reali, o realmente operanti). A mio parere questo argomento è pochissimo trattato: c’è poca informazione; un comune cittadino non saprebbe neppure come muoversi per cercare di dare un seppur piccolo contributo, col rischio magari d’incappare in qualche presunto benefattore che in realtà è solo, a sua volta, uno sfruttatore senza scrupoli. Concludo, anche perchè lo spazio è poco, con la speranza che anche di questo argomento così grave e orribile si faccia un bombardamento mediatico tale da sollevare un movimento d’opinione nei paesi dell’occidente; trovo che, fra tante cose di cui si parla oggi, questa debba avere forse la precedenza. Qualcuno deve trovare la forza e il coraggio di opporsi, qualcuno che conta e che può influenzare anche l’opinione comune. Mi auguro che questo accada al più presto.
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