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Cent’anni fa la Grande guerra

Un secolo fa il capitalismo scopriva le virtù della guerra globale. Da allora non ne può fare a meno. Ma l’arte rovescia le imposture irredentiste, razziali e suprematiste

di Maurzio Zuccari

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Tra la fine di luglio e i primi d’agosto prende corpo, cent’anni fa, una delle guerre più sanguinose nella storia dell’umanità. Un conflitto costato oltre venti milioni di morti, dei quali un terzo civili: distruzioni immani e un numero tre volte maggiore tra feriti e invalidi, anche a causa delle epidemie susseguite alle ostilità, quali la temibile spagnola. Combattuto inizialmente sui fronti d’Europa al punto da nascere come guerra europea, o meglio terza guerra balcanica per i contemporanei, si allarga nel corso di quattro anni a macchia d’olio, guadagnandosi l’appellativo di mondiale. Molte cause concorrono a far sì che nessuno prenda in seria considerazione l’ipotesi di evitare la catastrofe. Maturata negli anni precedenti con le spallate nei Balcani e in Africa portate a quel che restava dell’impero ottomano ma esplosa il 28 giugno 1914 assieme ai colpi sparati a Sarajevo dal diciannovenne Gavrilo Princip all’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, e alla consorte.

Il fatto è che l’opinione dei più, nel mese che passa dall’attentato al principe ereditario alla dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, è che questa, comunque vada, durerà poco. Lo crede il kaiser Guglielmo II che sollecita gli Asburgo a chiudere in fretta la partita coi serbi e promette ai soldati in partenza per il fronte francese, nella prima settimana d’agosto: tornerete nelle vostre case prima che siano cadute le foglie. Lo crede la folla che lo applaude sotto le finestre di palazzo sventolando ombrellini e pagliette, i soldati con l’elmetto chiodato ai quali le belle dame mettono in braccio mazzi di fiori che vanno a battersi per la libertà e quelle che mandano baci ai fanti francesi, i poilu ancora coi ponpon in capo, convinti di combattere per una libertà più grande. L’Italia, preda delle stesse smanie belliciste, per il momento resta a guardare, in attesa di chi potrà dargli di più, prima di gettarsi nella fornace nel maggio 1915 rovesciando la sua alleanza con la Triplice.

L’illusione di una guerra di breve durata cade presto, davvero prima delle foglie. Il geniale piano di annientamento a cui il capo di stato maggiore Schlieffen aveva lavorato fino all’ultimo dei suoi giorni porta i tedeschi a un passo dallo sfondamento delle linee francesi e alla conquista di Parigi ma, complice l’inaspettata invasione della Prussia da parte della Russia, già dopo i primi mesi la guerra di movimento cede il passo a quella di posizione che sarà la tragica caratteristica del primo conflitto mondiale. Interminabili linee di fronte scavate nel fango e nella roccia dove per quattro anni gli eserciti di mezza Europa e di buona parte del mondo si dissanguano a prezzo di risultati territoriali risibili. Una tragico cocktail dove l’idiozia tattica e strategica di stati maggiori dalle menti risorgimentali fa il paio con l’insipienza di diplomazie e teste coronate che non hanno voluto evitare quel conflitto immane e l’uso di armi di distruzione di massa, dai gas ai bombardamenti aerei.

È un collasso dell’intelligenza, umana prima ancora che militare, che si reifica sui campi di battaglia, che gli alti gradi impongono con la repressione, quando le fole della bella guerra vengono meno nel fango delle trincee. La tecnica della decimazione è particolarmente in voga nell’esercito italiano, al punto che per trovare una salma degna d’essere tumulata nel monumento al milite ignoto, cioè che non fosse stata colpita da piombo italiano, si dovettero escludere dalla cernita due terzi del fronte. Ovunque, dall’Isonzo alla Marna, le fucilazioni di massa fanno muro ai disertori e a chi chiede di rivolgere le armi contro i propri ufficiali e governi. E dovunque le repressioni hanno successo, tranne che in Russia, dove di contro trionfa la rivoluzione bolscevica che rovescia l’impero russo e strozza la repubblica di Kerenski in fasce.

La rivoluzione d’ottobre è il maggiore portato politico della Grande guerra, assieme alla dissoluzione degli imperi centrali usciti sconfitti dal cozzo – germanico, austro-ungherese e ottomano – dando la stura alla nascita dei partiti comunisti che si richiamano alla sua esperienza e al confronto con il nascente imperialismo statunitense che permeerà di sé il secondo Novecento. Un esito rivoluzionario che altrove, in primis in Italia e in Germania, porterà invece le masse già in armi sotto l’egida della controrivoluzione, dando l’abbrivio ai nascenti totalitarismi e gettando i semi del secondo conflitto mondiale.

Quel primo conflitto, sviluppo della tecnologia bellica a parte, ha almeno questo di buono: capolavori della letteratura e delle arti che al maturare delle condizioni politiche e pacifiste rovesciano le imposture irredentiste, razziali e suprematiste della guerra igiene dei popoli, proprie ad esempio del futurismo italiano, in opere di forte opposizione alla barbarie e all’assurdità della guerra. È questo il caso, per limitarsi ai nomi maggiori, dei pittori britannici Paul Nash (in foto, The Menin road, 1919) e Wyndham Lewis, dei tedeschi Otto Dix e George Grosz, del francese Henri Barbusse, che già nel 1916 dà alle stampe Il fuoco, censuratissimo racconto capace di aggiudicarsi il premio Goncourt. Quasi esclusivamente iconografiche e propagandistiche invece le opere cinematografiche: toccherà attendere gli anni Trenta per vedere i primi film antimilitaristi, quali All’Ovest niente di nuovo di Lewis Milestone (Oscar 1930) e La grande illusione di Jean Renoir (Oscar 1939).

A tutt’oggi, nell’immaginario artistico e collettivo, tranne che in aree particolarmente segnate dalle battaglie, come larghi tratti dell’arco alpino, la memoria collettiva ha in gran parte dimenticato quei macelli, surclassati dal successivo conflitto mondiale. Restano a testimoni di quel sonno della ragione opere letterarie edite o riedite in occasione del centenario. Qualche titolo, utile a cogliere l’atmosfera di quei mesi e ripercorrere le tappe di quella follia, a partire dal romanzo di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale (Mondadori), pietra angolare della riflessione critica sulla Grande guerra, pubblicato nel 1929, da cui Milestone trasse il suo capolavoro cinematografico. Il punto di vista è quello di un giovane studente tedesco volontario sul fronte occidentale che vede crollare speranze e certezze nella vittoria e nella legittimità della causa germanica.

Barbara Tuchman nei Cannoni d’agosto (Bompiani), rievoca le concitate giornate dell’estate del 1914 e dei primi mesi di guerra. Pubblicato nel 1962, valse all’autrice il Pulitzer, con una lettura più da cronaca giornalistica che storica. Ancora sui primordi è il saggio di Cristopher Clark, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra (Laterza). Un libro che segue i fili che si intrecciano nell’estate del 1914 e portano il vecchio continente allo scontro. Decisivo, per Clark, il peso della crisi balcanica (la prima guerra mondiale inizia come terza guerra balcanica) e dell’aggressione italiana alla Libia. A cura della Editrice Goriziana è invece riedito Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914, tre volumi pubblicati per la prima volta nel 1942 dai Fratelli Bocca ma ancora oggi una delle interpretazioni più curate degli eventi, dal Congresso di Berlino del 1878 alla dichiarazione di guerra, a firma del direttore del Corriere della Sera esautorato dal fascismo. Per finire E/O pubblica quattro racconti di Federico de Roberto, autore dei Viceré, con storie di soldati italiani sul fronte, dal titolo esaustivo: La paura. Quella grande paura che mise per sempre fine alla Belle époque ma non impedì lo scoppio di un’altra, più feroce, guerra mondiale di lì a poco.

 

www.mauriziozuccari.net

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