In dodici anni quattrocentomila morti e due milioni di rifugiati. In Darfur è un atto un vero e proprio genocidio da parte del governo sudanese. La Cina padrona del Paese non interviene. L’Occidente se ne frega di quel pezzo d’Africa.
di Franco Fracassi
George Clooney ha smesso di occuparsene. Insieme a lui anche la sua collega Angelina Jolie. E così, la guerra è caduta nell’oblio. La notizia è che non si combatte per il petrolio, e nemmeno per questioni religiose. In Darfur, dal 2003 si combatte una guerra di eliminazione fisica di due popolazioni da parte del governo centrale sudanese. In gioco il controllo di ricchi pascoli, in un Paese vasto, ma prevalentemente desertico. Poi, c’è anche la miniera d’oro di Jebel Amir…
Secondo le Nazioni Unite, dodici anni di conflitto hanno provocato quattrocentomila morti e due milioni di rifugiati.
Le tensioni per il controllo della terra e dei pascoli tra gli agricoltori e i pastori nomadi, di etnie africane i primi e arabe i secondi, sono esplose nel febbraio del 2003, quando due gruppi di autodifesa popolare (Slam e Jem) si sollevarono in armi contro il governo di Khartoum accusato di trascurare la regione e marginalizzarne la popolazione. Occasione sfruttata in pieno dal presidente Omar Hassan al Bashir, che da allora ha scatenato contro gli Slam e i Jem le milizie di predoni arabi «Janjaweed» (diavoli a cavallo). Musulmani contro musulmani.
Alla finestra la Cina, vera padrona del Sudan. Hassan al Bashir ha concesso a Pechino lo sfruttamento dei ricchi giacimenti petroliferi. In cambio, la Cina ha inviato nel Paese decine di migliaia di ingegneri per costruire strade, ferrovie e infrastrutture.
Il governo cinese impedisce un intervento militare serio che metta fine alla guerra. L’Occidente non vuole alienarsi le simpatie di Pechino per una terra così marginale nello scacchiere geopolitico. Quindi, nulla accade e gli Slam e i Jem continuano a essere sterminati. A nulla servono i ventimila caschi blu schierati, insieme ai settemila soldati inviati dall’Unione africana e alle migliaia di cooperanti dell’Onu e di molte ong.
Padre Feliz da Costa Martins, superiore della parrocchia di Nyala, la capitale del sud Darfur, ha raccontato così l’attuale situazione nella regione: «La situazione al nord è peggiore, ma i riflessi dell’instabilità e delle violenze sono ben percepibili in tutto il Darfur. Spostarsi da una zona all’altra è diventato pericoloso a causa della presenza delle “harakat” (movimenti), in alcuni casi gruppi di banditi, in altri milizie al soldo di qualcuno, ma non c’è un controllo territoriale basato su sfere di influenza come negli anni del conflitto. C’è insicurezza e basta».