Fuggono da Birmania, Pakistan, Sri Lanka, Siria, Cambogia, Laos. Secondo le convenzioni internazionali, si tratta di rifugiati. Per il governo, invece, sono criminali e per questo vengono sbattuti in prigione. Ecco la sorte dei 375.000 bambini emigrati in Thailandia, a cui i “grandi” hanno negato la luna.
di Alessandra Contigiani
«Abbiamo lasciato il Pakistan perchè avevamo paura di finire in prigione. Ma nell’IDC in Thailandia, siamo rimasti due anni… Non abbiamo visto la luna per due anni». Ali A., rifugiato pakistano, prigioniero thailandese, bambino.
Si chiamano Immigration Detention Centers (Idc). Sono le prigioni in cui vengono rinchiusi migliaia di bambini ed adulti in Thailandia, con la “colpa” di aver desiderato un futuro migliore, lontano da guerre, povertà, fame, regimi dittatoriali. La Thailandia, infatti, non ha firmato la Convenzione dei Rifugiati del 1951 nè il relativo Protocollo del 1967. Pertanto, in questo Paese, essere migranti sprovvisti di visto è un reato che si sconta con la galera, indipendentemente dall’età. In barba alla giurisprudenza internazionale. E, soprattutto, in barba alla tutela dei diritti dei minori stabilita dalla relativa Convenzione Internazionale, a cui la Thailandia ha aderito.
Sono infatti ben trecentosettantacinquemila i bambini emigrati in questa nazione che, ad oggi, rischiano di essere arrestati. Come quei quattromila bimbi che ogni anno vengono rinchiusi in celle sovraffollate, luride, senza sufficiente cibo o cure. E’ questo il quadro drammatico riportatoci da Human Rights Watch attraverso il suo recente rapporto “Two Years with No Moon: Immigration Detention of Children in Thailand”.
Gli arresti avvengono ovunque: nei luoghi di lavoro, al mercato, per strada, spesso in seguito a veri e propri raid della polizia. Qualche bambino a volte si salva vestendo l’uniforme scolastica, in virtù dell'”Education for all”, la politica educativa thailandese stilata nel 2005 che stabilisce il diritto all’educazione per tutti, migranti compresi. Le reclusioni sono effettuate a tempo indeterminato e senza che i familiari ricevano alcun tipo d’informazione da parte delle autorità. Inoltre, non esistono meccanismi giudiziari affidabili a cui possano appellarsi per ottenere la propria libertà o quella dei loro cari. Trattasi, a tutti gli effetti, di detenzioni minorili arbitrarie.
Come se non bastasse, per poter uscire di prigione, bisogna anticipare le spese di rimpatrio. Cioè, i detenuti devono reperire sufficienti risorse economiche perchè il governo thailandese, che li trattiene illegalmente, li rispedisca nei luoghi da dove sono fuggiti e dove rischiano la vita. Nel caso di reclusione dell’intero nucleo familiare, potrebbero trascorrere anni prima di tornare in libertà. La stessa polizia spesso richiede denaro in cambio del rilascio: cifre che vanno dai duecento agli ottomila baht (sei-duecentocinquanta dollari).
I traumi psicologici che segnano questi bambini sono particolarmente violenti. Si tratta di minori spesso fuggiti da conflitti ed indigenza che, invece di trovare pace e serenità, vengono arrestati e sbattuti in squallide carceri. Dove i soprusi da parte delle guardie e degli altri detenuti sono purtroppo all’ordine del giorno.
Particolarmente gravosa è la situazione dei bambini detenuti nell’Idc di Bangkok: immaginate cosa significhi vivere in una cella così affollata da non riuscire a sdraiarsi neppure per dormire, infestata dai ratti, dove vengono stipate molte più delle ottanta persone previste, con un’unica latrina funzionante. Nel 2013, nell’Idc della provincia di Phang Nga, famosa per la sua baia paradisiaca, vennero arrestati centinaia di rifugiati politici di etnia Rohingya fuggiti dalla Birmania. Circa trecento persone, tra cui minori non accompagnati, vennero rinchiusi in due celle dalla capienza di quindici uomini. Otto morirono a causa di malattie provocate dalle pessime condizioni igieniche e dall’iperaffollamento.
Prima del golpe militare avvenuto a maggio, il governo aveva mosso qualche progresso in termine di regolarizzazione della posizione dei lavoratori migranti; in seguito al colpo di stato, la notizia di un ulteriore inasprimento del trattamento rivolto a rifugiati e immigrati ha letteralmente scatenato l’esodo di duecentoquarantaseimila migranti cambogiani, tra l’8 e il 25 giugno scorsi. Il National Council for Peace and Order thailandese, dal canto suo, ha negato l’esistenza di misure restrittive riguardanti l’immigrazione, annunciando la creazione di permessi temporanei di lavoro da rinnovare eventualmente dopo sessanta giorni.
La maggiorparte dei rifugiati che vivono in Thailandia proviene dalla Birmania: si tratta di almeno settantottomila persone, di cui più di trentaquattromila bambini, secondo l’Unhcr, anche se l’ong The Border Consortium parla di oltre centodiciassettemila individui. Chi di loro vive nei campi profughi, dipende totalmente dalla agenzie internazionali; chi invece vuole ricostruire autonomamente il proprio futuro avventurandosi per la Thailandia in cerca di lavoro, rischia di essere arrestato, detenuto e rimpatriato. Lo stesso Unhcr ha dei poteri d’azione molto limitati: può rilasciare dei “Asylum Seeker Certificates”, una sorta di salvacondotta per i migranti rifugiati (ma non a birmani, nord coreani e hmong del Laos) che però non sempre vengono riconosciuti dalle autorità.
Eppure, soluzioni alternative al carcere si potrebbero prendere facilmente in considerazione. L’International Detention Coalition, un’associazione di oltre duecentocinquanta ong che lavorano in cinquanta nazioni per proteggere i diritti dei migranti detenuti, a tal fine ha realizzato una proposta atta a scongiurare la reclusione dei bambini, “There are Alternatives: A Handbook for Preventing Unnecessary Immigration Detention”. Ci auguriamo che il nuovo governo ne prenda atto. E che i bimbi imprigionati nelle carceri thailandesi possano presto tornare a vedere la luna brillare in alto nel cielo.