Accusato di inettitudine in patria, Obama rischia di perdere il controllo del Congresso. Il governatore del Texas dice che i terroristi possono essere già arrivati nel suo Stato. E così dichiara una nuova guerra al terrorismo. E l’Italia che fa? Si accoda. Anche se non si sa come.
di Lucio Manisco
Gravitas, brevitas, l’eco ricorrente della «Cartago delenda» di Catone, anzi del «we shall fight on the beaches» di Winston Churchill ai Comuni contro la Germania nazista: così Barack Obama nel discorso di mercoledì notte alla nazione ed al mondo ha dichiarato guerra all’Isil, la quarta guerra in trent’anni al terrorismo in Medio Oriente.
Gli Stati Uniti non daranno tregua al barbarico califfato, lo frantumeranno e poi lo distruggeranno In Iraq, in Siria, nello Yemen, in Somalia ed in altre parti del mondo per tutelare la sicurezza del popolo americano. Come? Il Capo dell’Esecutivo non è entrato nei dettagli che arriveranno dopo, ma ha delineato strategia e traguardi di una guerra ad oltranza che si protrarrà oltre i due anni del suo rimanente mandato alla Casa Bianca: estensione dei bombardamenti aerei in corso – droni, F-16 e forsanco B-52 – sull’Iraq e sulla Siria, massicce forniture di nuove armi pesanti all’esercito iracheno e l’arsenale delle democrazie darà man forte anche alle forze irregolari curde (checché ne dica il nuovo governo di Baghdad).
Nessun «boot on the ground» a stelle e strisce, ma il contingente di consiglieri, istruttori e addetti alla Intelligence degli Stati Uniti salirà da 1.200 a 1.775. Le truppe di terra verranno fornite da una formidabile coalizione di quaranta Paesi, dieci europei, tra i quali l’Italia. Il tutto al costo di cinquecento milioni di dollari che incrementeranno un bilancio della Difesa più alto del totale di tutti gli altri bilanci della Difesa di Paesi avversari o amici nel resto del mondo.
Bene, benissimo, anzi male secondo editoriali e commenti pubblicati il giorno dopo dal New York Times. Ecco alcuni dei titoli: «La critica di un sostenitore di Obama» (ha sbagliato tutto) a firma di Nicholas Christof, «I sunniti iracheni temono più la minaccia del loro governo» (che non quella dell’Isil) di Fahim, Ahmed e Simple, «Il costo della guerra» di Charles M. Blow (i dati ufficiali Usa: 4.900 caduti americani, 144.000 morti tra i civili dell’Iraq, più di duemila miliardi di dollari per il contribuente), «Per molti iraniani prove evidenti: l’Isil è un’invenzione di Washington» di Thomas Erdebrink, che dedica ampio spazio alle denunzie del leader supremo, l’Ayatollah Ali Khamenei, fino ad oggi ignorate dallo stesso New York Times e da tutti gli altri mass media.
E poi nel discorso di Obama nessun accenno, nessuna fugace menzione della crisi ucraina, che insieme al tema della “Coalizione dei volenterosi” aveva dominato le consultazioni della Nato nel Galles. Forse perché Vladimir Putin ha imposto una tregua, non ha invaso come asserito fino alla settimana scorsa dal regime di Kiev il paese e la commissione d’inchiesta olandese ha evidenziato che l’aereo della Malaysia Airlines è stato abbattuto da colpi di mitragliere di grosso calibro e non da un missile terra aria SA-11 di fabbricazione russa: dato che i separatisti russofoni non dispongono di aviogetti militari se ne deduce che uno o due caccia Sukhoi dell’aviazione ucraina hanno abbattuto l’aereo civile. Due mesi di accanita campagna contro il leader russo, di sanzioni sempre più pesanti e la creazione di una forza di pronto impiego Nato in Polonia e nelle repubbliche baltiche avrebbero pertanto avuto motivazioni pretestuose e indotto il premio Nobel per la Pace Obama a non farne parola nel suo discorso. Non va dimenticato che la campagna antirussa negli Stati Uniti aveva raggiunto estremi parossistici: un ex dirigente della Cia aveva delineato la necessità di «sparare un proiettile nella testa di Putin» per risolvere la crisi ucraina.
Per tornare alla quarta guerra dichiarata da Barack Obama la propaganda governativa e non governativa, fedelmente ampliata dai mass media, non è stata da meno e l’orrenda decapitazione dei due giornalisti statunitensi James B. Foley e Steven J. Sotloff hanno inevitabilmente provocato lo sdegno dell’opinione pubblica americana e occidentale.
Sono bastati questi episodi di barbarie a scatenare l’ira funesta del presidente che di esecuzioni extragiudiziarie se ne intende dato che ogni martedì mattina seleziona sei terroristi o sospettati di terrorismo all’estero per farli ammazzare dai suoi droni? C’è da dubitarne. Più credibile la tesi secondo cui il collasso dell’esercito iracheno nelle prime ore dell’offensiva scatenato da 7.000 estremisti islamici e la loro acquisizione di dozzine di carri armati Abrahams e di centinaia di pezzi di artiglieria pesante abbiano suggellato il totale fallimento di trenta anni di guerra al terrorismo. Va ricordato che a gennaio lo stesso Obama aveva parlato di un Iraq democratico e pacifico (sulla falsariga della «missione compiuta» proclamata da Bush Junior travestito da pilota militare nel 2013). E lo stesso Obama sette mesi fa aveva definito l’Isil «a VJ team», «a Varsity Junior team» (squadra sportiva giovanile da università secondaria) mercoledì sera si è ricreduto: mancano sei settimane alle elezioni di medio termine e le accuse di inettitudine, indecisione e debolezza rivoltegli dai repubblicani e dai democratici più conservatori hanno reso più che probabile il 4 novembre la perdita di tutte e due le ali del Congresso decretando la paralisi dell’Esecutivo per l’ultimo biennio del mandato. Quando un candidato repubblicano alla successione, il governatore del Texas Rick Terry ha denunciato la probabile presenza nel suo stato di terroristi Isil infiltratisi attraverso le frontiere con il Messico e il deputato Michael Bacchmann, autorevole membro della commissione della Camera sui servizi di sicurezza e controspionaggio, ha commentato l’offensiva Isil in questi termini: «Non abbiamo visto nulla di simile dai tempi di Hitler e della sua blitzkrieg nella Seconda Guerra Mondiale», l’analogia Chamberlain-Obama era inevitabile e solo una bella guerra poteva dissiparla.
Concludiamo mestamente con il ruolo dell’Italia dopo il dissennato discorso di Alfano alla Camera, secondo il quale, anche se mancano prove certe, i terroristi minacciano l’Italia e la Santa Sede ed è necessario correre ai ripari anche con controlli più restrittivi sull’immigrazione. Prima e dopo l’impegno della ministra degli Esteri nonché responsabile – si fa per dire – della politica estera dell’Unione Europea, a schierare la nazione tra i Paesi volenterosi nel nuovo conflitto sarebbe opportuno chiedere al governo Renzi cosa voglia dire anche in questo frangente la logora battuta “l’Italia farà la sua parte”. Manderemo in Iraq o in Siria i 3.000 nostri militari in Afghanistan, la Folgore, i carabinieri, un contingente di guardie svizzere?
Auguriamoci che l’opinione pubblica del nostro paese insieme a quella di altri Paesi europei si svegli dal suo torpore e imponga l’adozione di provvedimenti più razionali ed efficaci per combattere l’estremismo islamico senza partecipare ad una guerra che come quelle che l’hanno preceduta sono solo servite a diffonderlo nel mondo intero. Non c’è purtroppo da fare affidamento su un analogo cambiamento dell’opinione pubblica del grande impero d’occidente. Disdicevole ma inevitabile il richiamo ad un vecchio adagio: gli americani sono liberi di dire quello che pensano, perché non pensano a quello che è impedito loro di dire.