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Capa, il reporter che sapeva fotografare la guerra

Le foto del 1943-44, quando Robert Capa era in Italia al seguito degli Alleati, in mostra a Genova fino al 5 ottobre

di Claudio Marradi

1 Capa

«Se le tue fotografie non sono all’altezza, non eri abbastanza vicino». Parola di uno che di queste cose se ne intendeva. Si chiamava Endre Friedman e se non vi dice niente è soltanto perché adottò molto presto il nome d’arte di Robert Capa. Ossia probabilmente il più importante fotoreporter di guerra del XX secolo, che in oltre vent’anni di attività ha seguito i cinque maggiori conflitti mondiali: la guerra civile spagnola, la guerra sino-giapponese, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana del 1948 e la prima guerra d’Indocina.

Oggi le foto di Capa sono in mostra, fino al 5 ottobre, nella Loggia degli Abati di Palazzo Ducale a Genova. L’esposizione “Robert Capa in Italia. 1943-1944”, curata da Beatrix Lengyel, raccoglie 78 immagini in bianco e nero che raccontano, settant’anni dopo, lo sbarco in Sicilia e l’avanzata delle truppe alleate fino ad Anzio.

Quando arriva in Italia come corrispondente di guerra dal luglio 1943 al febbraio 1944, Capa ritrae la vita dei soldati e dei civili in un viaggio per immagini che rivelano, con immediatezza ed empatia per il soggetto ritratto, i tanti aspetti della guerra spingendosi dentro il cuore del conflitto.

Lo spiega bene lo scrittore John Steinbeck in occasione della pubblicazione commemorativa di alcune fotografie di Robert Capa: «Capa sapeva cosa cercare e cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino».

Ingiustamente sottovalutata rispetto al resto della produzione fotografica di Capa, la selezione di fotografie provenienti dalla serie Robert Capa Master Selection III e acquisita dal Museo Nazionale Ungherese, racconta la campagna d’Italia con la resa di Palermo, la posta centrale di Napoli distrutta da una bomba ad orologeria o il funerale delle giovanissime vittime delle Quattro giornate di Napoli. E ancora, vicino a Montecassino, la gente che fugge dalle montagne dove imperversano i combattimenti, o i soldati alleati accolti a Monreale dalla popolazione. E’ il fermo immagine di un incontro fra mondi che sembrano sideralmente lontani, come nella foto del contadino siciliano alto quanto il soldato americano accucciato cui sta indicando qualcosa, che accanto a lui sembra un gigante. Ed è il ritratto di un conflitto fatto di paura, attesa, dell’attimo prima dello sparo, di stanchezza e di brevi momenti di riposo strappati qua e là. Ma anche di speranza e brandelli di umanità. Perché è una guerra, quella restituita dal suo obiettivo, senza eroi: di gente comune, di piccoli paesi uguali in tutto il mondo ridotti in macerie, di soldati e civili vittime di una stessa ferocia. Vicino, sempre più vicino alle vittime, come fu vicino alla morte del miliziano della guerra civile spagnola nel suo scatto più celebre. Troppo vicino, fino a calpestare la mina che gli fu fatale a Thái Binh, in Vietnam, nel 1954. «Capa è stato un buon amico e un grande e coraggiosissimo fotografo. Era talmente vivo che uno deve mettercela tutta per pensarlo morto». Così lo ricordava affettuosamente Ernest Hemingway.

L’eredità umana e professionale di quello che è considerato il padre del fotogiornalismo vive oggi in quei free-lance che coprono i conflitti in giro per il mondo senza assicurazione e senza contratto, con l’unica incerta prospettiva di vendere qualche scatto al loro ritorno. Precari di un villaggio globale sempre più squassato da conflitti e guerre civili, si avvicinano a volte troppo anche loro. Come hanno fatto Andy Rocchelli e Andrei Mironov, falciati in un giorno di primavera da un tiro di mortaio nella campagna ucraina e il documentarista Simone Camilli,    caduto in un giorno di normale tregua a Gaza. Perché, come recita l’avvertimento stampigliato sugli specchietti retrovisori di certe auto e che si dovrebbe forse riportare anche sulle macchine fotografiche dei fotoreporter: “gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto sembra”. Così vicini che uno si trova già nel mirino di un cecchino. E magari nell’obiettivo di un collega, che riprende in diretta la sua morte.

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