A luglio, in Ecuador, la rottura di un oleodotto ha provocato un disastro ambientale. E’ solo l’ultimo di una serie di “incidenti” che stanno avvelenando la vita nel Sucumbíos.
di Hernán Scandizzo*
Anche se presto c’è già movimento per le strade di Lago Agrio. Al bar sfilano le cameriere portando colazioni a base di uova sfrittellate, polpette di banano, pancetta fritta, caffè, succo di frutta, e attorno ai tavoli la gente si accalca. Il caldo comincia a farsi sentire. I marciapiedi offrono le mercanzie più varie, corpi compresi. Nella città capoluogo della provincia di Sucumbíos – una delle 24 provincie dell’Ecuador, nel nord est del paese -, i riferimenti al petrolio sono dappertutto, un hotel si chiama Oro Negro, così come una cooperativa di taxi; una azienda collettiva porta il nome di Petrolera, la similitudine con la cooperativa El Petróleo, di Cutral Co. non è solo una coincidenza. La stessa denominazione della città è intimamente relazionata con l’industria estrattiva, Lago Agrio, che in italiano significa Lago Acido, fu il nome del primo pozzo perforato dal consorzio Texaco-Gulf nella sua avanzata sull’Amazzonia ecuadoriana, nel 1967; e non è che ci sia davvero un lago, è che si ispirarono alla cittadina texana di Sour Lake. Poi fu chiamata Nueva Loja, ma Lago Agrio si impose prepotentemente: gli idrocarburi e la presenza delle compagnie petrolifere, al di là dell’impatto socio-ambientale, sono nel Dna del luogo, che sorge a pochi chilometri dalla frontiera con la Colombia.
Avanzando lungo la strada ci imbattiamo in un gruppo di operai che, ad oltre un mese dalla rottura (avvenuta il 1 luglio) dell’Oleodotto Secondario di Petroecuador, lavorano alla rimozione del greggio riversatosi nel rio Parahuaico, nella zona di Parahuaco.
Un po’ più in là, ad Atacapi, come uscisse da un lungo accendino, una fiamma non smette di bruciare gas vicino ad un pozzo; è che l’interesse dell’impresa pubblica Petroecuador è tutto riposto sul greggio, il resto è avanzo.
Ancora più avanti, a Shushuqui, i bidoni con i residui prodotti dall’Area Libertador si perdono nella fitta selva, ma la densità della vegetazione non può nascondere il penetrante odore degli idrocarburi che evaporano sotto un intenso sole. Nemmeno la recinzione, costruita a metà, può preservare la popolazione di Pacayacu dall’esposizione al vapore del gas e ai vapori di un serbatoio di produzione situato a pochi metri dal centro abitato. Persino nel centro abitato la compagnia petrolifera statale aspira a riaprire un pozzo nel campo Carabobo.
Alessandra, di Accion Ecologica, assicura che Chevron e Texaco hanno progettato un modello per lo sfruttamento petrolifero seguito poi sia dalle compagnie private che pubbliche, e che prevede il totale disinteresse per la cura dell’ambiente.
Fabiàn racconta che quando arrivò a campo Secoya era : “malato per la pesca, malato per la caccia e l’acqua non era tanto… ancora non era così contaminata”. La produzione di mais, cacao, caffè, banano e yucca era molto estesa. “Prima si riusciva a raccogliere cinque o sei quintali di caffè per ogni ettaro di terra coltivata, adesso a malapena se ne raccolgono due quintali”. L’uomo, moro, occhi che brillano e sguardo trasparente, sostiene: “Non possiamo più coltivare nulla, il fiume è totalmente contaminato… gli animali si ammalano, sono debilitati”. Per questo ha dovuto abbandonare la sua fattoria e trasferirsi a Pacayacu, dove è entrato a far parte del Comitato dei danneggiati dalla contaminazione dell’acqua. “Siamo immersi nella contaminazione, beviamo acqua contaminata… in questo spazio ci organizziamo e uniamo le nostri voci per denunciare l’inquinamento” spiega. E poi rilancia: “Se non riescono a ripulire l’acqua che hanno contaminato, allora che non estraggano più petrolio”.
Sulle acque delle piccole e tranquille conche formate dal rio galleggia la melma di greggio, una volta quell’acqua veniva usata per usi domestici, adesso bisogna comprarla. Una tanica da 25 litri di acqua costa però 2 dollari, i salari più alti di coloro che lavorano per l’industria petrolifera oscillano dai 300 dollari per chi lavora alla manutenzione, ai 1087 per chi lavora nelle equipe di perforazione.
La moglie di Sixto è morta di cancro. Il marito è convinto che la malattia è venuta dall’acqua contaminata dal petrolio. Per qualche tempo è rimasto nella sua fattoria insieme ai suoi sei figli, ma alla fine ha dovuto abbandonarla, alla contaminazione dell’acqua si sono aggiunte le fumigazioni aeree che la Colombia lanciava all’altezza della frontiera per distruggere le coltivazioni di coca. Non era più possibile vivere lì. Così si è trasferito a Pacayacu e poco dopo anche lui è entrato nel Comitato.
Nel 2005 il Comitato dei danneggiati dalla contaminazione dell’acqua presentò una richiesta di giudizio contro Petroecuador arrivata fino alla Corte Nazionale la quale si espresse a favore delle popolazioni locali. Ovviamente la compagnia petrolifera statale portò il caso alla Corte Costituzionale e, a tutt’oggi, non è stata emessa alcuna sentenza esecutiva. Nel 2010 sono stati fatti studi per determinare la presenza di idrocarburi policiclici aromatici (Pah, nell’acronimo inglese): su 23 campioni di acqua 22 hanno dato esito positivo. I Pah sono considerati Composti organici persistenti (Pop, sempre nell’acronimo inglese), pertanto possono permanere nell’ambiente per lunghissimi periodi, senza alterare le loro proprietà tossiche. L’esposizione cronica ai Pop può provocare cancro, conseguenze sulla riproduzione, sullo sviluppo infantile e del sistema immunologico.
I membri del Comitato hanno denunciato che i profitti ricavati dal petrolio sono investiti soprattutto nelle provincie costiere, mentre “quest’area dell’Amazzonia, che è il centro, punto di origine del petrolio” è stata abbandonata. Inoltre Petroecuador assume gente da fuori, quelli del posto li chiama solo per lavori temporanei e a salari irrisori.
Come un grande boa nero si estende lungo il cammino, avanza in linea retta, dopo gira a destra e poi a sinistra, passa davanti alle case, si poggia su supporti metallici, penetra nell’asfalto e riappare dall’altro lato, incoronato dalla vegetazione. Così, dall’Amazzonia fino al bosco coperto di nuvole, il lungo serpente del Sote – il Sistema di oleodotto Transecuatoriano, lungo 497,7 chilometri – ci fa da scorta nel viaggio di ritorno a Quito. A volte lo si perde di vista, ma la percezione della sua presenza è continua. Al suo interno viaggia il greggio estratto dalle viscere della terra rossa, dalle profondità della giungla, dalle viscere del popolo.
*giornalista e ricercatore argentino di Opsur, Observatorio Petroleo Sur
(traduzione di Marina Zenobio)