Henri Cartier Bresson, fino al 6 gennaio 2015 al Museo dell’Ara Pacis di Roma. Popoff è stato alla presentazione della mostra
di Maurizio Zuccari
Chissà cosa si prova ad amare alla prima occhiata qualcosa, farne la propria ragione di vita, e poi bandirla per sempre dalla propria esistenza. Chissà cos’ha provato Henri Cartier Bresson a essere uno dei più grandi fotografi di sempre, oltre che del XX secolo, fin dal primo momento in cui ha visto e posseduto una Leica, nel 1932, a 24 anni, e a non voler più toccare il tasto di una reflex negli ultimi trent’anni della propria lunga esistenza, se non per qualche scatto privato. L’occhio del secolo breve, il teorico dell’istante fatale o, più semplicemente, Hcb per gli addetti ai lavori, scompariva dieci anni fa dalle scene del mondo, nell’agosto del 2004, dopo aver abbandonato la macchina fotografica per tornare agli acquerelli, alla pittura come suo padre, pittore di qualche vaglia. Un ritorno alle origini.
Così il mostro sacro s’acconciò a passare gli anni della maturità a scarabocchiare l’ossario al Museo nazionale, a ritrarsi da vecchio di là dai vetri d’una finestra, rughe e occhi velati a tratteggiare la propria decadenza. La fotografia è l’impulso di un istante che si fa eterno, il disegno la coscienza colta in quell’istante: un gesto di meditazione, amava dire Hcb nelle rade interviste del periodo. Forse cercava questo, nei suoi disegni: meditare su cos’era stato e più non era, una nuova coscienza del proprio essere. Sono domande, queste, che il visitatore si pone come il viandante di Vittorini con le scarpe sfondate nella pioggia, fanno andare senza un dove e perché, nella mostra-monstre che dal Centre Pompidou è sbarcata all’Ara Pacis. La maggiore retrospettiva europea mai realizzata per il decennale della scomparsa che da Parigi giunge a Roma, ed è l’evento d’autunno.
Cinquecento tra foto e disegni sono tanta roba, forse troppa, quando in quegli scatti è il mondo e la sua storia recente a riflettersi negli occhi di chi l’ha attraversata e documentata. E con essa è il vissuto del fotografo, il suo privato a svelarsi. Tutta la sua carriera è lì, in quegli scatti fatali come l’istante che colgono, arcinoti anche a chi del suo autore ignora tutto, pure il nome. Che siano i grandi momenti della Storia con la esse maiuscola – come lo schiaffo dato alla collaborazionista di Vichy nel tribunale popolare, il grumo d’umani sull’albero stento che spicca nella fiumana dei presenti al funerale di Gandhi – o della storia privata – quali l’uomo sorpreso nell’atto di sbirciare da una tenda, l’altro che salta da una pozzanghera, o il ciclista in corsa giù per le scale d’Hyères – sono carrellate d’eternità, scatti capaci d’immortalare in un gesto l’uomo in quanto tale, ancor prima dell’umanità del Novecento.
Dagli amori per le posture surrealiste decantate da Breton agli orrori della guerra civile spagnola vissuta da militante comunista, come pure ai reportage sociali per l’Humanité di Aragon, dalla Seconda guerra mondiale vissuta da resistente ai conflitti degli anni Cinquanta e Sessanta, reporter d’eccezione per la Magnum, da lui cofondata, Cartier Bresson ha attraversato ogni crocevia del mondo per virare, negli anni Settanta, verso l’intimismo prima del definitivo abbandono. Preludio alla fine di un grande amore e distacco dal proprio tempo, al rinchiudersi in sé. Curata da Clément Chéroux – suo anche il bel catalogo Contrasto – storico della fotografia e curatore Musée national d’art moderne che si è avvalso del grande archivio di famiglia alla fondazione Cartier Bresson, l’esposizione giunta dal Pompidou è tanta roba, ma non può fare luce anche su questo, sulle zone d’ombra del fotografo francese. Henri Cartier Bresson, fino al 6 gennaio 2015, Museo dell’Ara Pacis, Roma.
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