Sono pochissimi gli affetti da vera e propria dislessia. Vengono curati con gli psicofarmaci della Big Pharma. E alle scuole conviene per salvare la didattica
«La crescita esponenziale di dislessici alle elementari e alle medie cui stiamo assistendo negli ultimi anni non è credibile». Il professor Alain Goussot, docente di Pedagogia Speciale all’Università di Bologna, è piuttosto netto a riguardo: «Siamo bombardati da uno sguardo dell’apprendimento di tipo unicamente clinico, che osserva solo i sintomi, e abbiamo abbandonato quello pedagogico, che invece cerca di comprendere le potenzialità del singolo nel suo processo di apprendimento. In realtà, pochissimi casi di dislessia sono frutto di un deficit neurologico. Ma questo sguardo clinico diffuso porta il bambino con difficoltà a sentirsi diverso ed emarginato. Il più delle volte, lui reagisce con ansia o iperattività, sintomi per i quali le case farmaceutiche vendono psicofarmaci con enorme profitto. Senza contare i grandi guadagni dei neurologi e degli psicologi privati, a cui le famiglie ricorrono per evitare i tempi troppo lunghi di diagnosi nelle strutture pubbliche».
La storia di Gioia sembra confermare perfettamente le parole del professore. Alle elementari le era stata diagnosticato un Dsa, ovvero un disturbo specifico dell’apprendimento: visti i suoi ritardi nell’imparare a leggere e a calcolare, dopo il ciclo di visite dallo psicologo, dal neurologo e dalla logopedista, grazie alla legge 170/2010 aveva ottenuto il permesso di scrivere con l’aiuto del correttore automatico del computer e di contare con le tavole di calcolo. Gli insegnanti avevano l’obbligo di farle fare dei compiti in classe scritti, e solo con domande che richiedevano di completare una frase. Poteva seguire le lezioni solo con l’ausilio della Lim, la lavagna elettronica, perché non sarebbe stata in grado di prendere appunti. E i suoi compiti a casa erano sempre meno di quegli degli altri compagni. In questo modo, Gioia ha trascorso tutte le scuole, fino alla quinta superiore di un istituto tecnico. I problemi sono iniziati all’esame di maturità: il presidente della sua commissione, in pensione da qualche anno, non conosceva le agevolazioni previste dalla legge 170, e gliele ha vietate. Gioia è stata bocciata. Non ha mai protestato con la scuola per questo, e sta ripetendo la quinta superiore in una scuola privata.
Nel solo anno scolastico 2010-2011, le scuole italiane hanno visto oltre novantamila diagnosi di Dsa, poi aumentate del trentasette percento nell’anno successivo. La Asl di Pisa ha lanciato l’allarme: soltanto nel 2013 ci sono state cinquecento richieste di diagnosi di Dsa, di cui sono state confermate oltre trecento. La tendenza è però stata la stessa in tutta Italia, visto che gli screening richiesti per le prime classi sono stati più di tremila. Non a caso, l’ultimo bilancio dell’Aid (Associazione italiana dislessia), risalente al 2011, ha registrato un aumento delle fondazioni esterne proveniente da vari enti pubblici, soprattutto la Telecom, per un totale di oltre settantamila euro annui, e un aumento dei suoi soci, che oggi sono più di settemila. Quasi ogni provincia italiana ha una sede dell’Aid. Senza contare che spesso per una diagnosi di dislessia si arriva a spendere quasi mille euro a famiglia, tra psicologi, neurologi e logopedisti.
In realtà, come ha spiegato il professor Goussot, non tutti i casi di Dsa sono specchio di un vero e proprio deficit: «Ci sono due tipi di dislessia: quella congenita-evolutiva, corrisponde a una disfunzione neurologica, la quale impedisce di tradurre fonemi in grafemi. C’ è poi quella acquisita, che presenta le stesse difficoltà della prima, ma senza un deficit neurologico: questa è quella della gran parte dei Dsa odierni. Ma, se la prima si può solo educare, perché convivrà con il soggetto per tutta la sua vita, la seconda deve essere educata, perché è spesso frutto di povertà di stimoli socio-culturali o traumi, come l’aver subito o assistito a violenze, o anche l’essere emigrati. Non a caso, il grosso dei Dsa è diagnosticato a bambini stranieri o affetti presumibilmente da Adhd. Il compito della scuola dovrebbe invece essere quello di distinguere la difficoltà dell’apprendimento dal disturbo; solo il primo è indice di dislessia congenita».
«In pedagogia si dice che non esiste alcun apprendimento senza difficoltà», ha aggiunto Goussot. Invece, in conseguenza della legge 170, il corpo insegnanti è bombardato da questo sguardo solo clinico nei confronti dei suoi scolari. Nel 2010, per esempio, aveva fatto discutere il permesso che la legge garantiva alle scuole di richiedere lo screening per tutti i bambini che manifestavano un ritardo nella lettura o nel calcolo. «Alla base c’è una crisi della scuola e della famiglia: gli adulti ultimamente sono troppo protettivi con i loro figli. Questo atteggiamento, però, non li fa crescere, e li lascia fragili e senza strumenti per affrontare qualunque difficoltà. Va bene garantire l’aiuto di determinati strumenti, ma non bisgona confondere la cura e la terapia con la pedagogia», ha proseguito Goussot. A sentire il professore, il meccansimo di fondo è lo stesso alla base dei computer: «Si concepisce il rapporto interpersonale solo nella forma stimolo-risposta. Laddove non c’è corrispondenza funzionale tra questi due, chi non rientra nella risposta prestabilita viene etichettato come diverso ed escluso. È un modello che permette solo di formattare soggetti adattati e adattabili. Invece, in pedagogia si ritiene che ognuno debba trovare le sue proprie strategie di apprendimento».
A chi giova tutto questo approccio clinico? Anche su questo il professor Goussot è lapidario: «C’è un business di diverse aziende, in particolare quelle farmaceutiche. Prendiamo l’esempio della Big Pharma: diagnosticare un Dsa a un bambino lo spinge molte volte a sentirsi diverso ed escluso. E quando un bamino viene etichettato in questo modo, il più delle volte reagisce con stati di ansia, angoscia e problemi di adattamento. Tutti questi sintomi si curano con gli psicofarmaci». Dalla vendita di queste medicine, le aziende farmaceutiche statunitensi hanno ricavato ogni anno più di venti miliardi di dollari. «A questo si aggiunge un business di classe, che è quello di neurologi e psicologi o di operatori sanitari e scolastici. Il Ministero della Salute giustifica questi provvediementi dicendo che segue una linea scientifica specifica. Ma sa benissimo che c’è chi ci guadagna», ha aggiunto il professore.
Insomma, il business viene prima di tutto: creare nuove malattie sembra l’unico modo per vendere e guadagnare. E i bambini stanno diventando le prime vittime di questo business. Come Goussot ha concluso, «bisogna ricordare la definizione foucaltiana di malattia mentale, vista non tanto come devianza patologica, quanto come una modalità particolare di esistenza, ricca di potenzialità e originalità. In una parola, la malattia sarebbe socialmente costruita». Creare dei diversi diventa sempre più il modo di inventare nuove malattie per cui c’è già una cura pronta. Che porta guadagno.