Inaugurata al Palazzo delle Arti di Napoli la mostra “Fragile”, dedicata al giornalista napoletano e a tutte le vittime dell’informazione. In esposizione anche l’auto Méhari a cui Siani era tanto affezionato.
di Mario Conforto
Il titolo della mostra è simbolico: “Fragile”, per testimoniare che la vita di ogni cronista e inviato di guerra è rischiosa, senza nessuna protezione – se non della propria coscienza – a tal punto da spezzarsi. Come la sua macchina, che è lì, ferma, che ne è la rappresentazione della delicatezza e della trasparenza. Metafora della vita, da cronista, di Giancarlo. Le pareti della sala, del Palazzo delle Arti di Napoli, sono coperte da grandi pannelli su cui sono stati riprodotti i suoi articoli. Anche quello che lo condannò a morte datato 10 giugno 1985 in cui veniva raccontato che il clan Nuvoletta aveva fatto arrestare il boss Valentino Gionta. Tra i giovani studenti a manifestare contro la camorra. Oppure le immagini di quando era accasciato sul manubrio della sua Méhari, col capo chino, perché ucciso barbaramente con dieci colpi di pistola e il titolo dell’articolo: “Gli hanno sparato alle spalle”. Tante espressioni di un giovane idealista. Anche racconti di colleghi dell’epoca. Daniela Limoncelli, amica e collega di Giancarlo, ha curato ogni minimo particolare con la scelta dei testi e delle immagini.
Una foto, però, è significativa: sorridente sulla sua automobile, la Citroën Méhari, di colore verde fosforescente. Fu acquistata a Bologna. Paolo, il fratello, ha ricordato: «Aveva giusto i soldi della benzina e nulla più per ritornare a Napoli. Lui la amava tanto ed era qualcosa che andava ben oltre una semplice macchina».
Era difficile all’epoca scrivere della “nuova camorra organizzata” di Raffaele Cutolo e dei clan: Alfieri, Nuvoletta, Gionta e Bardellino. Questo era lo scenario. Ma il cronista talentuoso dimostrò di avere tanto coraggio. È il ventinovesimo anniversario della sua scomparsa. Oggi, Napoli, ha una strada dedicata a lui: “Rampe Giancarlo Siani”. Questa volta le istituzioni locali e la Fondazione Pol.i.s – il presidente è il fratello del giornalista –, il direttore de “Il Mattino”, Alessandro Barbano e, l’Associazione delle vittime della camorra hanno deciso di inaugurare un’esposizione, allestita nell’atrio del museo e, allo stesso tempo, di svolgere dibattiti e seminari dal 27 settembre al 15 ottobre.
Ogni mattina il giovane giornalista percorreva venticinque chilometri. Da casa alla redazione de “Il Mattino” di Castellammare di Stabia (in provincia di Napoli). Riunioni, telefonate, lettura di giornali e poi andava sempre a Torre Annunziata, Comune a sud di Napoli, in cui il clan Gionta ne controllava i traffici illeciti. Da inviato era lì che svolgeva il suo lavoro di cronista. Dunque, era un po’ il suo mondo quella vettura. Simbolicamente è ferma ma in realtà è in viaggio. Sarà sempre in viaggio. Con la lancetta del contachilometri a tutto gas. La famiglia non la volle più dopo l’assassinio. Fu venduta durante un’asta giudiziaria e fu poi ritrovata in un agriturismo sull’isola di Filucidi dell’arcipelago Eolie nel 2009. Era diventata rossa, strano destino, come il sangue che versò. Piena di fieno con qualche gallina nell’intento di riposarsi. Dopo che fu riverniciata, un cambio d’olio e la nuova batteria, poi, è stata usata dal regista Marco Risi per le riprese del film, biografico, Fortàpasc. La Méhari è un’auto spoglia. Scoperta, senza sportelli né tetto. Suggerisce fisicamente l’enormità dello scontro sostenuto, forse nell’inconsapevolezza, da quel giornalista-pubblicista – tra l’altro precario – di venticinque anni che sfidò con determinazione e a petto nudo i clan. Racconti di verità nei suoi articoli. Sollecitava le coscienze.
L’auto di Giancarlo è simbolo di verità e racchiude in una sintesi perfetta il sacrificio quotidiano di donne e uomini nella difesa della legalità, affrontando i rischi a viso aperto, senza scudi protettivi e pagando, a volte, un prezzo altissimo. È un gancio delle memorie. Un tributo di sangue per la libertà. Né spazio né tempo. Azioni e impegno diventano alimento di democrazia. La Méhari è corpo e cuore. Accende emozioni, ricordi e suscita passione civile. Sullo sfondo di questo infinito percorso c’è ancora lui: Giancarlo. La sua volontà, i suoi sacrifici, il suo lavoro come riscatto e impegno civile affinché le nostre terre si liberino dei cattivi sedimenti della delinquenza.
“In viaggio con la Méhari” è strumento per riconnettere le storie a volte dimenticate di giornalisti, foto-reporter, operatori dell’informazione, donne e uomini della società civile valorosi e uccisi con la violenza arrogante. Lo scorso anno ha ripreso il suo viaggio tra le strade di Napoli. Da via Vincenzo Romaniello – dove abitava la famiglia Siani – nel quartiere residenziale dell’Arenella, per raggiungere i luoghi in cui Giancarlo viveva la quotidianità: il Liceo Gian Battista Vico, la redazione de “Il Mattino” in via Chiatamone. Con una staffetta, giornalisti, magistrati, forze dell’ordine, associazioni hanno guidato l’automobile. La macchina è stata esposta anche a Bruxelles dove il presidente del parlamento europeo, Martin Schulz, con commozione, ha espresso il pieno sostegno alla lotta alla criminalità. Poi a Roma è stata ricevuta dai presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Piero Grasso.
L’osservatorio Ossigeno per l’informazione, promosso dalla Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi), ha documentato, nei primi duecentosessantotto giorni del 2014, minacce a trecentosei giornalisti. Solo in Campania, dal 2011 al 2014, sono duecentocinquanta. La Méhari parla, dunque, di Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Giuseppe Impastato, Mario Francese, Giuseppe Fava, mauro Rostagno, Giuseppe Alfano, Carlo Casalegno. Quelli uccisi fuori dai confini italiani: Italo Toni, Graziella De Palo, Almerigo Grilz, Guido Puletti, Marco Lucchetta, Ilaria Alpi, Gabriel Gruener, Antonio Russo, Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello, Enzo Baldoni, Vittorio Arrigoni. Parlare di Giancarlo Siani e di tutti gli altri giornalisti e operatori dell’informazione uccisi a causa del loro lavoro; scoprire che per ragioni analoghe, in tutta Italia, ai nostri giorni, centinaia di giornalisti subiscono minacce e abusi, sapere perché alcuni di loro devono essere protetti da una scorta armata; sapere perché in Italia accadono cose tanto terribili che invece non si verificano negli altri Stati dell’Europa occidentale, oggi è necessario.
L’anno fatidico è il 1994: Gabriele Donnarumma, cognato del boss Valentino Gionta, inizia a collaborare con la giustizia. Da lui verrà fuori il vero movente dell’omicidio e, i nomi dei mandanti e dei killer. Solo dopo un anno gli assassini ebbero un volto e un nome. Su ordinanza di custodia cautelare del gip Giovanna Ceppaluni furono arrestati per associazione mafiosa e omicidio di Giancarlo Siani: Valentino Gionta, Angelo Nuvoletta, Luigi Baccante detto Maurizio, Ciro Cappuccio (quello che sparò), Gaetano Iacolare, Ferdinando Cataldo, Alfredo Sperandeo e Armando del Core (il palo).
È passato da poco il giorno di nascita di Giancarlo. Il 19 settembre avrebbe compiuto cinquantacinque anni. I giovani studenti dell’associazione contro la camorra, da tre anni, sotto la sede de “Il Mattino”, festeggiano con cittadini, il fratello, le associazioni per la legalità, giornalisti. Tutti insieme. Torta, spumante e pasticcini. Insieme diffondono verso il cielo una sola voce: «Buon compleanno Gianca’, buon compleanno uaglio’».