Si sono ritrovati a vivere in tenda dentro la basilica Santa Maria Maggiore a Roma. Ma anche in container minuscoli, edifici commerciali e ancora chiese. L’incredibile storia di Luca, Nelly e dei loro due bimbi. Un dramma vissuto da troppi abitanti della capitale.
testo di Monica Amendola
foto di Linda de’ Nobili
Hanno vissuto per un anno e mezzo in un container di otto metri quadrati con i due figli piccoli. Poi si sono spostati da una sistemazione di fortuna all’altra, dormendo per terra, a volte coperti solo da un tenda, occupando anche edifici commerciali, con un unico bagno da condividere con altre cinquanta famiglie, spesso anche senza doccia e acqua calda. Dopo due sgomberi imposti dalla polizia hanno occupato la basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, sistemandosi in un’ala della chiesa inaccessibile al pubblico. Hanno anche presentato al Comune di Roma la domanda per ottenere l’assegnazione di una delle tante case popolari disponibili, ma spesso queste vengono occupate abusivamente, rendendo complicata la procedura di assegnazione.
È l’avventura capitata ai coniugi romani Luca e Nelly (non verrà reso noto il loro cognome per impedire ritorsioni): «Lavoravamo entrambi, in una ditta di costruzioni e in un mercato coperto, finché la ditta edile non ha iniziato a tagliare lo stipendio a Luca. Ogni mese riceveva meno, finché non sono giunti a dargli solo cinquanta euro ogni due settimane. A quel punto una famiglia con due bambini piccoli si vede costretta a fare delle scelte: se bisogna fare la spesa per mangiare, non si riesce più a pagare l’affitto; e da lì all’essere sfrattati per morosità il passo è breve», raccontano.
Così, vista la situazione di emergenza, hanno dovuto trovarsi una sistemazione: un container di otto metri quadrati in zona Castelverde, a Roma, in cui hanno vissuto per un anno e mezzo. Trovano ancora il coraggio di ironizzare su questa vicenda, ma, come hanno più spesso ripetuto, «non è piacevole rimanere in quattro ammassati in una stanza minuscola, senza spazio in cui far giocare i bambini e nemmeno un bagno. Per lavarci dovevamo uscire di casa e per mangiare dovevamo rivolgerci alle associazioni benefiche, come la Caritas o la Amici senza confini, che spesso ci ha dato una mano».
Dopo un anno e mezzo in queste condizioni, si sono messi in contatto con il gruppo Ram (Resistenza abitativa metropolitana), e con altre quindici famiglie, tutte italiane e nella loro stessa condizione, hanno occupato abusivamente la chiesa di San Cirillo a Tor Sapienza, in disuso da un anno e mezzo, riempiendo la navata con le loro piccole tende. Poi anche la chiesa è stata fatta sgombrare, e tutte e quindici le famiglie, insieme ad altre, hanno occupato una palazzina in via di Torre Spaccata: «Perché non avevamo un altro posto in cui andare».
Ma anche da lì il movimento Ram è stato fatto sgomberare, dopo otto ore e mezza di resistenza pacifica sul tetto, e ha occupato la basilica romana di Santa Maria Maggiore, accampandosi anche qui sotto le tende (alcuni) e dormendo (altri) sul marmo: «Volevamo solo che, attraverso il Vaticano qualcuno facesse pressione sul Comune di Roma perché ci aiutasse a trovare una casa. Non vogliamo andare nelle case famiglia, perché le donne vengono separate dagli uomini e i figli dai genitori, mentre noi siamo una famiglia. In ogni caso, nessuno di noi ha mai voluto dare fastidio alla normale routine della basilica: pur se eravamo in un’area vietata all’accesso del pubblico, ogni mattina ci alzavamo alle cinque, anche i bambini, e ripulivamo i segni della nostra presenza: tornavamo soltanto dopo le otto di sera per dormire, quando non c’erano più turisti».
Ora Luca e Nelly vivono in periferia di Roma. Sono frustrati e un po’ disillusi, perché «di certezze lavorative non si può parlare, non abbiamo un posto fisso. Oltretutto, i bambini hanno paura, specie quando vedono una macchina della polizia: temono che venga a portarli via. Inoltre, in situazioni come la nostra, la vita è profondamente segnata dalle difficoltà della convivenza con altre famiglie, come quella di dividere l’unico bagno disponibile e spesso di dover razionare l’acqua calda. Non ci sentiamo tutelati dalle politiche comunali e governative per la casa».
La storia di Luca e Nelly potrebbe essere adattata a diverse famiglie romane, visto che, a sentire Cafiero Tomei del sindacato Sunia di Roma, le occupazioni abusive in città sono più di ottomila. Inoltre, dai dati comunali risulta che le famiglie in situazione di emergenza siano quarantamila, di cui cinquemila in condizioni di precarietà abitativa assoluta. Senza parlare degli oltre ottomila sfratti avvenuti a Roma nel solo 2013, di cui seimila per morosità. Le case popolari a disposizione sono settantatremila, e ogni sei mesi il bando per l’assegnazione si apre; inoltre, il Comune è in attesa dei fondi governativi del cosiddetto “Piano Casa”. In più, è attivo ventiquattro ore al giorno un servizio di segnalazione delle occupazioni abusive che conduce a interventi tempestivi di sgombero.
Ma, nonostante tutto, l’assegnazione degli appartamenti alle famiglie in difficoltà sembra manifestare dei problemi. Ha spiegato ancora Tomei: «Spesso si scopre, dopo che un alloggio di questi è stato assegnato, che nel frattempo è stato occupato abusivamente. Tra questi occupanti ci sono alcuni disperati, ma molti di loro non ne avrebbero alcun bisogno, eppure se ne appropriano per rivenderle, creando così un business di compravendita difficile da fermare. Altri ancora invece non li rivendono, ma li lasciano in condizioni così disastrose da non essere abitabili senza una ristrutturazione; ma nel frattempo chi vi dovrebbe vivere di diritto non ha una casa, di nuovo. La situazione è così grave da anni, anche se forse si è acuita da quando c’è la crisi; però è un discorso lungo da affrontare, perché i provvedimenti del Comune non sembrano risolutivi».