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Morales, le ragioni di un trionfo

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Avanti tutta con il governo dei movimenti sociali. Il neo-rieletto presidente della Bolivia dichiara che la rivoluzione politica e sociale del paese non si fermerà.

di Marina Zenobio

Evo Morales Bolivia

La schiacciante vittoria di Evo Morales alle elezioni presidenziali di domenica in Bolivia ha un suo perché: ha vinto perché il suo governo è stato, senza ombra di dubbio, il migliore nella convulsa storia della Bolivia. “Migliore” significa che ha mantenuto la grande promessa di ogni democrazia, sbandierata da tanti e il più delle volte incompiuta, cioè garantire il benessere materiale e spirituale di una intera popolazione eterogenea, una massa di persone che per secoli è stata oppressa, sfruttata e umiliata. Per i boliviani Evo rappresenta uno spartiacque, c’è una Bolivia prima del suo governo ed un’altra, diversa e migliore, che è cominciata a crescere con il suo arrivo a Palacio Quemado. In questa nuova Bolivia ha preso vita lo Stato Plurinazionale che riconosce i diritti delle tante etnie indigene presenti sul territorio, sotterrando definitivamente l’altra Bolivia, quella coloniale, razzista, elitaria.

Senza dubbio i primi due governi di Morales hanno sviluppato una nuova politica economica che ha dato risultati straordinari per la vita del paese, ma c’è anche da aggiungere che la sua altrettanto straordinaria leadership trova ragione nel fatto che Evo ha scatenato una reale rivoluzione politica e sociale, il cui segno più evidente è l’instaurazione, per la prima volta nella storia boliviana, di un governo dei movimenti sociali.

Il MAS, Movimiento Al Socialismo di cui Evo è il primo dirigente, non è un partito politico in senso stretto ma una grande coalizione di organizzazioni popolari che, nel corso di questi ultimi anni, si è sempre più estesa, arrivando ad incorporare anche settori della “classe media” che in passato erano stati ardenti oppositori del leader cocalero.

Ovviamente nessun processo rivoluzionario è privo di contraddizioni (perché la rivoluzione è sempre un processo, mai un singolo atto), e vale anche per la Bolivia. Ma ciò che distingue la gestione di Morales è il fatto che, queste contraddizioni, le sta risolvendo via via nella forma più corretta, rafforzando il blocco popolare e riaffermando il suo predominio in ambito statale. Stiamo parlando di un presidente che quando capisce di aver sbagliato – come per esempio durante il gasolinazo(*) del 2010 – ammette il suo errore, ascolta la voce delle organizzazioni popolari e torna sui suoi passi.

Tale infrequente sensibilità ad ascoltare la voce del popolo e agire di conseguenza spiega lo straordinario consenso popolare conseguito da Evo, che invece Lula e soprattutto Dilma Rousseff non sono riusciti a conquistare in Brasile. Morales ha permesso la trasformazione di una maggioranza elettorale in egemonia politica, cioè in grado di forgiare un nuovo blocco storico e costruire alleanze sempre più ampie, ma sempre sotto la direzione del popolo organizzato in movimenti sociali.

E’ chiaro che tutto questo non può essere solo frutto dell’abilità politica di Evo Morales o del fascino di una storia che esalta l’epopea dei popoli indigeni. Senza un adeguato ancoraggio alla vita materiale tutto sarebbe svanito senza lasciare traccia. Ma quel tutto è stato combinato con significativi risultati economici che hanno fornito le condizioni necessarie per la costruzione di quell’egemonia politica che, domenica scorsa, ha permesso a Evo di restare presidente della Bolivia con una vittoria schiacciante.

Il Pil boliviano è passato dai 9525 milioni di dollari del 2005 ai 30.308 nel 2013, e il Pil procapite è saltato da 1010 a 2757 dollari nel corso di quegli stessi anni. La chiave di questa crescita, e pure di questa distribuzione senza precedenti nella storia del paese, si trova nella nazionalizzazione degli risorse naturali, come gli idrocarburi.

La Bolivia è il secondo paese latinoamericano, dopo il Venezuela, per riserve di gas, e produce 40.000 barili di petrolio al giorno. Se nel passato l’ 82% delle rendite provenienti dello sfruttamento di gas e petrolio restava nelle mani delle multinazionali e allo Stato solo il restante 18%, con Morales questa proporzione si è invertita. E dal maggio del 2006, da quando i giacimenti sono passati di proprietà, per decreto governativo, alla compagnia statale YPFB (Giacimenti petroliferi fiscali boliviani), la parte del leone la fa il fisco boliviano.

Non sorprende quindi che un paese con deficit cronici nei resoconti fiscali abbia terminato l’anno 2013 con 14.430 milioni di dollari in riserve internazionali (contro i 1714 milioni di cui disponeva nel 2005).

Per calibrare il significato di queste cifre possiamo dire che le stesse equivalgono al 47% del Pil, di gran lunga la percentuale più alta di tutta l’America Latina. In linea con questi dati, la povertà estrema è scesa dal 39% del 2005 al 18% nel 2013, con l’obiettivo di sconfiggerla definitivamente entro il 2025.

Con il risultato di domenica Evo Morale continuerà ad abitare il Palacio Quemado fino al 2020, momento in cui il suo progetto di rifondazione della Bolivia dovrebbe aver passato il punto di non ritorno. A meno che non si verifichino “interventi esterni”.

*Con “gasolinazo” si intendono le proteste scatenate a dicembre del 2010 dopo che Morales aveva dichiarato un aumento dell’80% dei prezzi dei combustibili. Centinaia di migliaia di boliviani provenienti da El Alto, Cochabamba ed altre zone del paese raggiunsero La Paz protestando energicamente contro una decisione impopolare, che avrebbe provocato di conseguenza i rincari di tutti i generi di prima necessità. Evo Morale prese atto della protesta, ritirò la misura e si scusò con il suo popolo.

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