Isis ha trasformato Internet in uno strumento di propaganda più efficace che mai, ma i nostri leaders possono utilizzare gli stessi mezzi per terrorizzare noi.
di Robert Fisk *
Dal momento in cui il Pentagono cominciò a parlare dello Stato islamico come apocalittico, ho cominciato a sospettare che i siti web, i blog e YouTube stessero prendendo in consegna la realtà. E mi chiedo anche se lo Stato Islmaico o Isis – ci risiamo con le definizioni– non sia più reale in Internet di quanto non lo sia sulla Pianeta Terra. Certo non per i kurdi di Kobani, per gli Yazidi o per le vittime decapitate da questo strano califfato. Però non sarebbe arrivato il momento di prendere consapevolezza che la dipendenza da Internet, in politica e in guerra, sia ancora più pericolosa della dipendenza dalle droghe pesanti?
La convinzione, la convinzione assoluta che la schermata contenga la verità – che il “messaggio” sia in realtà la verità ultima – non è stato ancora pienamente riconosciuto per quello che è: un errare straordinario nella nostra coscienza critica che ci espone alle più crude delle emozioni – l’amore totale e l’odio totale – senza mezzi per correggere questo squilibrio. Il “virtuale” ha abbandonato la “realtà virtuale”.
Nella sua forma basica, è sufficiente leggere la brutalità nelle chat rooms di Internet. I giornali – sempre irrimediabilmente tardi – solo ora hanno iniziato a rendersi conto che quelle delle chat rooms non sono una nuova versione tecnologica delle “Lettere al direttore”, ma un pericoloso forum dove le persone possono dar sfogo alle loro caratteristiche più inquietanti.
Così un importante cambiamento politico in Medio Oriente, trasferito su Internet, assume proporzioni catastrofiche. I nostri leaders possono esserne colpiti– il presidente del Comitato della Camera Usa per la sicurezza nazionale, per fare un esempio, la scorsa settimana sbandierava una stampata presa da Dabiq, la rivista digitale dell’Isis – ma possono anche utilizzare gli stessi mezzi per terrorizzare noi.
Spogliati da qualsiasi faglia critica, siamo costretti al silenzio dalla “barbarie” dell’Isis, dal “male” dello Stato Islamico che, secondo le parola davvero infantili del primo ministro australiano, “ha dichiarato guerra al mondo”. Le strisce di notizie che scorrono nella parte bassa dello schermo televisivo somministrano una ondata di queste espressioni, lasciando fuori la grammatica e a volte persino i verbi. Siamo cresciuti così abituati alla narrazione per cui un musulmano si “radicalizza” per le cose dette da un predicatore nella moschea e poi si unisce alla jihad, che non ci rendiamo conto del ruolo che il laptop sta giocando in questo senso.
In Libano, per esempio, c’è un grande riscontro di quanta influenza abbiamo le immagini di YouTube sui musulmani che, prontamente, decidono di andare in Siria e Iraq, la stessa che hanno i predicatori sunniti. Le foto delle vittime mussulmane sunnite – o della “esecuzione” dei loro nemici definiti apostati – hanno un forte impatto che non può compararsi con le sole parole.
Martin Pradel – avvocato francese che ha facilitato il rientro di alcuni jihadisti ora detenuti – qualche giorno fa ha raccontato come i suoi clienti passassero ore su internet, con una preferenza per YouTube e altri social, guardando le immagini o i messaggi di propaganda dell’Isis. La Afp ha raccontato di una ragazza di 15 anni, di Avignone, che lo scorso gennaio è scappata di casa per andare in Siria senza che la sua famiglia sapesse nulla. Il fratello scoprì le due vite parallele della giovane attraverso due account facebook, uno in cui parlava della sua vita da normale adolescente, l’altro dove scriveva il suo desiderio di andare in Siria per “aiutare i suoi fratelli e sorelle”. Pradel ha dichiarato che la “radicalizzazione” si sta sviluppando in forma molto veloce, circa un caso al mese. Mi ricorda orribilmente i racconti degli adolescenti statunitensi che si chiudevano in casa con Internet per ore prima di uscire e sparare a compagni e insegnanti delle loro scuole.
In Internet, la pagina Dabiq (il magazine dell’Isis, ndt) – che prende il nome da una città siriana conquistata dagli jihadisti, che potrebbe essere il luogo di una futura e apocalittica (sì, ancora questa parola) battaglia contro i crociati occidentali – è una joint venture a macchia d’olio. Ma stampata e rilegata – ne ho qui accanto una copia mentre scrivo – mette in evidenza quanto sia cruda. Ci sono fotografie di esecuzioni di massa che sembrano le immagini delle atrocità sul fronte orientale nella Seconda guerra mondiale piuttosto che la pubblicità di un nuovo califfato musulmano. Così come il testo completo dell’ultimo messaggio del povero James Foley prima della sua decapitazione, che letto su carta è profondamente triste.
“Il team Dabiq [sic] vorrebbe sentire l’opinione dei suoi lettori” chiedono alla fine gli editori del magazine, fornendo indirizzi e-mail e consigli su come essere “brevi” perché – aggiungono, con umorismo forse involontario – “i tuoi fratelli sono impegnati con molte responsabilità e quindi non avranno il tempo per leggere messaggi lunghi “.
Ma questo è il punto, non è vero? Siate brevi. Mantenere la lunghezza verso il basso. Nessun argomento senza meta oppure la lettera può essere “modificata” (questa è la parola che gli editori utilizzano effettivamente in inglese).
Non mi dilungo qui sul fallimento della stampa “mainstream” occidentale – un’altra parola che detesto – nella definizione di Isis; gli editori di Dabiq hanno abilmente imitato molti dei suoi difetti. Ma coloro che sono agganciati dai messaggi di Internet – le immagini delle vittime di gas chimici a Damasco lo scorso anno hanno chiaramente avuto un enorme influenza – sono influenzati da noi giornalisti anche di più.
*Fonte: The Independent, 12 ottobre 2014 – Traduzione di Marina Zenobio