Per effetto della crisi e delle misure restrittive delle banche, le piccole imprese hanno sempre più difficoltà ad accedere al credito. Per questo si rivolgono a usurai. Ma negli ultimi anni, questi sono soprattutto clan mafiosi. Impadronendosi, così, dei beni delle vittime.
di Monica Amendola
«Negli ultimi anni, per effetto della crisi, i criteri di accesso al credito bancario si sono ristretti, e sono diventati difficoltosi soprattutto per le piccole imprese. Per cui, quando queste hanno bisogno di soldi, ricorrono ad altri criteri per ottenerli, finendo, così, nelle mani di usurai. Nonostante questo fenomeno non sia una novità, di recente è cambiata la figura dello strozzino: l’attività usuraria è ormai sempre più svolta dai clan mafiosi, che utilizzano il denaro proveniente dalle piccole imprese, soldi puliti, per investirli in borsa, per esempio, e guadagnare ulteriormente». Don Marcello Cozzi, vicepresidente dell’associazione Libera antimafie, descrive così il recente fenomeno dell’usura, riguardante, negli ultimi anni, duecentomila commercianti.
I primi effetti della crisi sono stati una perdita di redditività delle imprese e una diminuzione del potere d’acquisto di salari e stipendi. Gli Stati dell’Unione europea hanno reagito alla recessione con misure sempre più restrittive dell’economia, come il fiscal compact e il patto di stabilità, tagliando i fondi dedicati al welfare e prendendo come unico indicatore di crescita economica il Pil, più che il benessere delle popolazioni. Risultato: tre milioni e duecentotrentamila famiglie a rischio povertà solo in Italia. Il dodici percento della popolazione, in tutto dieci milioni e mezzo di persone.
Questo panorama è evidente soprattutto dalla situazione delle piccole imprese italiane: stando agli ultimi dati di Confesercenti, solo nel biennio 2010-2012 hanno chiuso i battenti duecentoquarantacinquemila attività commerciali, soprattutto commercianti al dettaglio, artigiani, alimentaristi, fruttivendoli, mobilieri, negozi di abbigliamento e ristoratori; a Roma si calcola una media di due fallimenti al giorno per le imprese di ristorazione. Ne è indice il rapporto della Banca d’Italia, che stima a centottantamila euro i debiti delle attività in crisi; o quello dell’Istat, che calcola difficoltà sempre crescente per oltre il trenta percento delle imprese.
Altrettante, in effetti, sono le attività che negli ultimi anni hanno dovuto chiedere un prestito; ma non alle banche, bensì a persone singole o associazioni. Così facendo, il commerciante di turno inizialmente spera di risolvere la sua situazione, ma il tasso di interesse raddoppia, si moltiplica. E per l’impresa pagare diventa sempre più difficile. La Guardia di finanza riceve ogni anno quasi diciottomila segnalazioni di tassi di interesse elevatissimi.
Qui sta il tratto tutto italiano. La vecchia figura dello strozzino è passata di moda, per lasciare spazio ai clan mafiosi: cinquantaquattro, calcolati da Libera antimafie, che non a caso, per descrivere il fenomeno dell’usura, utilizza l’espressione «il Bot delle mafie». «La caratteristica di questo nuovo tipo di usura è l’enorme abilità dei clan di inserirsi nelle difficoltà economiche delle imprese e di supplire al vuoto che le banche lasciano: in questo modo possono entrare anche in territori prima vergini al loro operato e utilizzarli come “lavanderia”. Perché le mafie utilizzano i loro soldi, ottenuti disonestamente, per infiltrarsi nell’economia pulita e poterli poi riciclare per altri scopi. Il tratto distintivo dell’usura di cosca è che l’obiettivo finale dell’azione usuraria è non quello di ottenere i soldi, bensì i beni della vittima. Non a caso il tesoro degli usurai è composto principalmente di proprietà immobiliari, società di capitale, ville e automobili di lusso. Per questo il lavoratore dipendente non è appetibile, e vengono colpite le imprese», si legge nel dossier sull’usura stilato proprio dall’associazione. Un meccanismo che sta alla base delle infiltrazioni camorristiche in Veneto e in Toscana; o della ‘Ndrangheta in Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna.
«Le varie Dda, durante le loro operazioni contro i clan mafiosi, hanno sequestrato oltre duecentocinquanta milioni di euro liquidi, letteralmente nascosti dovunque, pronti ad essere investiti in borsa», ha concluso don Cozzi. Per questo, a un giorno dalla giornata mondiale della lotta alla povertà (17 ottobre 2014), Libera lancia un allarme per bocca di Giuseppe De Marzo, coordinatore nazionale della campagna “Miseria ladra”: «In un Paese come il nostro, con il quarantaquattro percento di disoccupazione, cui è dovuto il diciassette percento di dispersione scolastica e quasi un milione e mezzo di minorenni in situazione di povertà, favorisce le mafie. Per lottare contro di loro occorre solo l’uguaglianza sociale, sancita nei primi dodici articoli della Costituzione. Le associazioni a delinquere riescono a coprire i vuoti di potere lasciati dallo Stato. Le banche hanno ricevuto quattordici milioni di euro, ma, non avendo l’obbligo di utilizzarli nell’economia reale, li investono nella finanza, che è per loro più redditizia».
Per questo l’associazione, nel presidio del 17 ottobre 2014, ha dato vita a un presidio davanti a palazzo Montecitorio, a Roma, per chiedere una maggiore spesa nel welfare e misure che aumentino il benessere reale delle persone. Perché, come don Luigi Ciotti, presidente di Libera, ha più volte ripetuto: «Una democrazia che non investe nei bisogni dei cittadini è una democrazia malata».