Il viaggio della Banda Bassotti e della Carovana antifascista al confine tra Russia e Ucraina. I concerti, la solidarietà, la frontiera da non oltrepassare.
di Maurizio Vezzosi
È domenica pomeriggio, e camminando quasi si suda: fa caldo a Donetsk, cittadina di cinquantamila abitanti del sudovest russo, omonima della più nota Donetsk nei territori dell’Ucraina orientale al centro delle contese tra esercito di Kiev e milizie popolari della Nuova Russia. Nonostante a pochi chilometri di distanza si combatta l’atmosfera appare quella di un piacevole fine settimana quasi estivo. Niente a che fare con il già severo autunno moscovita. Nel piccolo centro del meridione russo a ridosso del confine è arrivata da qualche giorno la carovana antifascista promossa dalla Banda Bassotti, che alloggia in un complesso un tempo utilizzato dai Pionieri del Pcus per i campi estivi ed altre attività.
Ad accogliere la carovana all’entrata del complesso c’è un grande cartellone di epoca brezneviana: «La salute è la nostra principale ricchezza». Appena il tempo di assaporare questa madelaine che la nostra mente è già alla ricerca del tempo perduto. Tempo che non ritorna, cantava qualcuno. Un tempo da alcuni mai vissuto, ma che ha avuto per tutti il sapore amaro della sconfitta, dentro una Storia di cui si è decretato la fine un paio di decenni or sono, facendo sprofondare le vecchie e le nuove generazioni in un sonno senza sogni.
Eppure, poco distante come a migliaia di chilometri, si combatte.
L’arredamento del posto è quello originale, probabilmente con la sola differenza delle singolari tinte (rosa e celeste) utilizzate per il rinnovo delle pareti. Originale è anche la nostra colazione, non esattamente mediterranea: uova fritte, pane col burro, cetrioli e wurstel accompagnati da tè o succo ai frutti rossi.
Mentre facciamo per allontanarci dal complesso sopraggiunge una chiassosa comitiva, che precede di poco l’arrivo di una sfarzosa macchina nunziale: salutiamo i due giovani sposi venuti a celebrare il loro pittoresco matrimonio nella chiesetta adiacente. Fuori cani, gatti, anatre e galline fanno da padroni, talvolta anche in mezzo alla strada, senza creare particolari problemi a nessuno. Poco distante una piazzetta: al centro un memoriale ai caduti dell’Armata Rossa. Qualcuno porta a spasso i bambini, altri discutono animatamente e gruppi di ragazzini improvvisano spericolate gare di velocità con le biciclette.
La piazzetta è ad appena dodici chilometri dalla frontiera: una riga grigia, crudele, tirata tra popoli legati da secoli di storia comune. Una frontiera che il 13 luglio scorso non ha impedito che alcuni colpi d’artiglieria dell’esercito ucraino cadessero in territorio russo, centrando un’abitazione della cittadina con il grave ferimento di due persone e la morte di un’altra. Una frontiera tra le più affollate sul confine orientale, dalle quali sono transitati centinaia di migliaia di profughi verso la Russia.
A Donetsk, non tutti sanno della carovana antifascista, e la nostra presenza suscita una certa curiosità tra la gente per strada.
Fermiamo il primo taxi che passa: alla guida un uomo come tanti, sulla cinquantina. Un’effige ortodossa sul cruscotto, il nastro di San Giorgio legato allo specchietto retrovisore. «Siamo italiani, siamo qui per sostenere la resistenza antifascista». Tace, annuisce, pur rimanendo pressoché impassibile dietro gli occhiali da sole. Ma non ci sfugge la sua emozione.
Dopo una serie di tortuosi sali-scendi sulle aride colline fuori città capiamo di essere arrivati a destinazione cominciando a scorgere una fila chilometrica di veicoli incolonnati. Furgoni, Volga, vecchie Lada, qualche utilitaria occidentale o asiatica di nuova generazione: ma sul lato destro della strada più che il modello dei veicoli salta all’occhio la quantità di oggetti che questi trasportano. Taniche di carburante, acqua, cibo.
A Lugansk, meno di venti chilometri dalla frontiera, la vita è dura.
Il tassista supera velocemente tutta la fila per arrivare davanti al punto di frontiera: «Voinà» (guerra), dice volgendo il capo al serpentone d’acciaio. Tira il freno a mano e ci ringrazia: «Spasiba». Obbiettiamo di non aver ancora pagato la corsa, ma fa cenno di no con la testa: gli occhi quasi gli brillano. Ci impuntiamo, e dopo una breve discussione buttiamo duecento rubli sul cruscotto. Accenna un sorriso, ma torna subito serio. Chiudiamo gli sportelli con i finestrini ancora abbassati, e questa volta il tassista lascia libero il suo sorriso, e ci saluta con la voce grossa: «No pasaran!». Attoniti per un istante replichiamo a nostra volta: «No pasaran!».
Una manovra, due colpi di clacson, e se ne va. Qualcuno alza il pugno chiuso, finendo per richiamare l’attenzione della gente in fila. «Italiani? Che ci fate qui?». Spieghiamo le nostre ragioni, e lo sforzo linguistico viene ricompensato da un immenso calore umano, a volte con abbracci e sorrisi, altre con la schietta sincerità degli sguardi induriti dalla sofferenza e dal dolore.
«La mia casa appena fuori Lugansk è nelle mani dei fascisti del battaglione Azov», ci racconta Vladimir, quarantasette anni, mentre tiene in mano un coltello serramanico e ne accarezza il filo della lama. Come tanti altri per guadagnarsi da vivere si è improvvisato tassista: dalla frontiera porta in città chi arriva a piedi o chi deve tornare indietro dopo aver fatto provviste.
Risaliamo il serpentone di mezzi incolonnati tra gas di scarico e la polvere delle colline dalle quali da secoli si estraggono minerali. Dietro una vecchia Lada carica di provviste e con alcuni pneumatici legati sul portapacchi spuntano i corni di una capra. Eccone un’altra, e un’altra ancora. E qualche metro più in là c’è Lisa, una vecchia contadina del posto: un fazzoletto legato intorno al viso coperto di solchi profondi che non coprono la dolcezza dei suoi tratti. «Che Dio vi benedica», esclama porgendoci il cesto di frutta che tiene in mano. Insiste, convincendoci a prendere con noi quattro o cinque delle mele che ha faticosamente raccolto. La salutiamo riprendendo a camminare di fianco alla fila di mezzi.
Il riflesso del sole che si abbassa sui vetri dei veicoli non copre la stanchezza e lo scoraggiamento di chi attende da ore di ritornare nell’inferno di casa propria.
Prendiamo un altro taxi, che ci accompagna nella piazza principale della cittadina, dove sta per suonare la Banda Bassotti. Sul lato destro della piazza il monumento di Lenin, la cui mano indica proprio il punto in cui viene allestito il palco: «Deduska Lenin» (nonno Lenin), ci dice qualche ragazzo ridendo. Il concerto viene accolto da un incredibile entusiasmo popolare.
Donne, uomini, ragazzi, vecchi e bambini. Nikolaj, sessantacinque anni, ci racconta la sua storia: è un chirurgo. Negli anni Settanta è stato inviato in Niger per una missione umanitaria. Colpito dalla nostra presenza, sul momento di salutarci mette mano al portafoglio e fa per darci dei soldi. «Il mio contributo», dice. Gli indichiamo alcuni punti di raccolta fondi per la Nuova Russia, ma scrolla la testa e insiste: «Per voi, per voi». Rifiutiamo.
Nel frattempo il sole tramonta, con due ore o più d’anticipo sul tramonto d’occidente. Torniamo nel complesso in cui siamo ospitati, dove ci aspetta una delegazione di miliziani venuta da Lugansk: si scusano. La situazione militare non offriva garanzie sufficienti per il passaggio oltre confine di tutta la carovana e per i concerti previsti in Nuova Russia.
Vengono consegnati aiuti e denaro, e la Banda Bassotti prende in mano gli strumenti. I cori delle canzoni di lotta risuonano nel silenzio dell’oscurità. Nelle Repubbliche popolari scatta il coprifuoco in un buio oceanico: la corrente elettrica scarseggia e l’illuminazione pubblica è pressoché inesistente. Un buio profondo, spesso squarciato dal fuoco dei missili Grad e Tornado, sparati con disinvoltura su abitazioni e luoghi pubblici dall’esercito ucraino.
Una notte in cui l’oscurità del cielo sommerge i nostri pensieri. Una notte abissale, vorticosa. Una notte nella quale si alzano dei lamenti che rompono il nostro sonno pesante. I lamenti di quelli che hanno pagato, quando l’unica moneta era il sangue da versare.