Rumiz chiede di riabilitare i soldati fucilati. Moscato ha scritto “La madre di tutte le guerre”
di Checchino Antonini
“Nei secoli fedeli”, si legge sullo stemma dell’Arma dei carabinieri che impazza in occasione del bicentenario perfino sulla prua dei treni di Montezemolo. Ma fedeli a cosa? Ad esempio a generali come Cadorna, crudeli quanto incapaci, che ordinarono la presenza di militari nell’Arma in ogni unità con l’ordine di sparare a chi non ne poteva più della guerra. Novantasei anni fa, come oggi, finiva la Prima guerra mondiale e da allora celebrazioni di quella carneficina si fondono con la festa delle Forze armate con un enfasi crescente da quando l’Italia è uno dei paesi più impegnati nella guerra globale. E’ incalcolabile il numero di soldati uccisi per le vie brevi dai loro ufficiali o dai carabinieri per codardia, ribellione o episodi di pazzia. «I principali Paesi belligeranti — scrive Paolo Rumiz – Francia, Germania, Inghilterra, ci hanno pensato da tempo, con atti politici, interventi presidenziali, monumenti, e l’aggiornamento delle liste dei Caduti. Quasi ovunque i condannati sono stati tolti dal ghetto della vergogna e della rimozione. Manca il nostro Paese, quello che ha fatto più largo uso della giustizia sommaria: 750 fucilati con processo, 200 colpiti da decimazione per estrazione a sorte» più la mattanza che non riusciremo mai a quantificare.
Continua Rumiz a sostegno dell’appello per la riabilitazione che sta circolando in rete: «E dire che l’Italia è stata uno dei primi Paesi a porre il problema con film (Uomini contro , di Francesco Rosi), con libri e ricerche storiografiche. Ed è stato anche il primo in Europa a erigere un monumento ai fucilati. È accaduto diciotto anni fa a Cercivento, sui monti della Carnia, sul luogo di una delle più ingiuste esecuzioni, il pra dai fusilâz, un prato che per decenni i valligiani rifiutarono di falciare in segno di protesta. Una memoria tenace, passata di bocca in bocca, che ha dato vita a un corpus di memoria orale ancora vivissimo e al quale nel ‘96 il sindaco Edimiro Della Pietra, mettendosi contro le autorità militari e rischiando una denuncia di apologia di reato, ha voluto dar forma di monumento». Dopo un processo sommario ci furono quattro fucilazioni. L’intero reparto sarà trasferito per punizione sull’altopiano di Asiago e lassù, un po’ di tempo dopo, il comandante sarà fatto secco da fuoco amico. «Settant’anni dopo – conclude Rumiz – il nipote di Gaetano Ortis, un militare di carriera, chiederà la revisione del processo, ma il tribunale militare di sorveglianza di Roma risponderà con una beffa che resterà nella storia: la domanda non può essere accettata «perché non presentata dall’interessato».
In compenso i due marò, che sono detenuti in India dopo l’omicidio di due poverissimi pescatori del Kerala, saranno al centro della retorica per la festa della Vittoria e perfino il nuovo ministro degli Esteri Gentiloni (un passato nel Movimento lavoratori per il socialismo, gruppo stalinista post sessantottino, e un presente renziano) appena insediato ha avuto il “primo pensiero” per loro. « Cinque ministri degli esteri si sono succeduti alla Farnesina, sempre con questo “primo pensiero” in testa. Tanto è importante assicurare l’impunità a chi mandiamo in giro nel mondo a fare “imprese umanitarie” o a garantire la sicurezza dei traffici – commenta sul suo blog, Movimento Operaio, Antonio Moscato – L’impunità degli assassini di Stefano Cucchi, dei macellai di Genova e di cento altre situazioni (penso ad esempio ai dirigenti dei servizi segreti che distrussero le prove sui veri mandanti italiani dell’omicidio di Ilaria Alpi e del suo cameraman) ha le sue premesse anche nel rifiuto di fare i conti con quella che fu la realtà criminale della Grande Guerra, che fu anche guerra di classe all’interno di ciascun paese. Quel crimine fu fondativo per l’Italia: facilitò l’ascesa del fascismo, e poi assicurò una continuità sostanziale col passato anche dell’Italia repubblicana, che non a caso nascose nuovamente perfino i crimini degli occupanti nazisti. Noi il 4 novembre ricorderemo solo le vittime di quei crimini, insieme ai pochi che ebbero il coraggio di opporsi al grande macello con i fatti, e non con le belle parole sulla pace».
Moscato, per molti anni docente di Storia all’Università di Lecce, è l’autore di “La madre di tutte le guerre” (edizioni La.Co.Ri) proprio sulla prima guerra mondiale che verrà presentato stasera (ore 18, Criticalbar di via dei Latini), a Roma, con un’intervista collettiva coordinata dallo storico Maurizio Zuccari. Con un netto scarto rispetto alle imbarazzanti celebrazioni per il centenario Moscato intende toccare tutti i nodi di quella che pretendeva di essere «la guerra per fare la pace perpetua» e invece è stata solo l’inizio. Il primo equivoco che prova a scansare è quello di una condanna alla guerra come se fosse solo la follia insita nell’uomo, quel «bagno di sangue nero» evocato dall’interventista Giovanni Papini. Moscato, al contrario, ne legge la genesi e lo svolgimento nella concorrenza interimperialista, nella questione coloniale, nelle politiche di potenza.
Se la pubblicistica copiosa, in tempi di anniversario, tende a far scomparire chi vi si oppose, da Lenin a Rosa Luxemburg fino a Jean Jaures, e ad enfatizzare il racconto delle atrocità e delle biografie individuali, decontestualizzato dai rapporti di produzione, Moscato – al contrario – insiste su come l’entrata in guerra fu una forzatura con menzogne e violenze di piazza ai danni di un’opinione pubblica sostanzialmente ostile, sul ruolo delle socialdemocrazie che si trasformarono il partiti socialpatriottici e anche su come, anche allora, la guerra veniva mistificata come una necessità dettata dalla lotta al terrorismo, come una guerra di civiltà. E anche all’epoca, pochi mesi prima, la guerra sembrava un’eventualità remota nella civile Europa. Più civile ancora l’Italia, la prima ad usare i gas che comprava nella nemica Germania che, a sua volta, acquistava motori sottomarini dalla “nostra” Fiat. «In questo quadro generale – scrive recensendo il libro un altro storico, Diego Giachetti – l’autore analizza l’entrata e la partecipazione italiana alla guerra. Si sofferma sulle imprese coloniali in Eritrea, Somalia, e Libia, dedica attenzione al “salto” di alleanze dell’Italia: dalla Triplice Alleanza all’Intesa e al “golpe” strisciante, gestito dalla Corona, dai potentati economici, dalle gerarchie militari e da intellettuali che promossero la mobilitazione dell’opinione pubblica (il caso più esemplare è quello di Gabriele D’Annunzio), che rovesciò la maggioranza parlamentare e impose la guerra a un’opinione pubblica in buona parte neutralista. La guerra Italiana viene raccontata nei suoi vari aspetti umani e militari: offensive inutili e costosissime in termini di vite umane, disfatta di Caporetto, renitenze, diserzioni, corti marziali, decimazioni di soldati. Il 1917 è l’anno più impegnativo su tutti i fronti, anche perché quello che accade in Russia apre uno spiraglio: la fine della guerra mediante la rivoluzione».
Il libro prova a individuare i processi innescati dalla guerra , oltre alla lunghissima scia di vittime, ben oltre i confini dei fronti, e che avranno conseguenze durature, diremmo permanenti, nei decenni successivi, dalla nazionalizzazione delle masse (l’identità costruita per contrapposizione) all’architettura coloniale che sarebbe scaturita dai trattati tra le potenze vincitrici e da cui ebbero origine la questione palestinese, le tensioni nei Balcani e la vicenda kurda con l’invenzione di nazioni fittizie sulle rovine dell’Impero Ottomano. La funzione dei carabinieri al fronte e nel fronte interno, la mancanza di sponde organizzate per chi era contrario alla guerra, le fraternizzazioni al fronte nel primo e nell’ultimo anno della guerra, le trasformazioni produttive e tecnologiche sono solo alcuni degli altri temi evocati nel volumetto che, almeno nell’iniziativa romana, sarà pretesto per una piccola controcelebrazione.