In mostra a Roma le tavole di Norman Rockwell, l’illustratore che non riusciva a dipingere mascalzoni
di Maurizio Zuccari
Forse non molti conoscono la storia di Willie Gillis, che incarnò lo spirito virtuoso del combattente per la libertà sulle copertine del Saturday Evening Post durante la Seconda guerra mondiale. Forse non tutti sanno la sua storia, dall’arruolamento al felice ritorno nella profonda provincia nordamericana. Un ragazzotto impegnato a pelar patate o a scrivere a casa più che a far sfracelli dei nemici, a mostrare il volto umano della guerra più che i suoi orrori. Ma tutti, o quasi, possono vedere nei tratti della recluta più famosa del momento l’inconfondibile mano e lo spirito di chi ha illustrato la vita e i sogni dell’americano medio per un largo tratto del XX secolo: Norman Rockwell (1894-1978). “L’artista della gente” non è stato, però, solo l’illustratore per eccellenza dell’american way of life: i suoi personaggi trasudanti buoni sentimenti e giuste cause hanno contribuito a plasmare l’immaginario della middle class statunitense in tempi in cui altri media erano di là da venire. La brava gente della domenica al sermone e del cappone nel giorno del ringraziamento, l’uomo della strada coi suoi miti e i suoi riti, è quello che Rockwell incarna col suo realismo romantico, con immagini d’assoluta poesia e ironia, soavi anche quando tratteggiano i problemi razziali o sociali di cui si fanno interpreti.
«Non riesco a dipingere mascalzoni», usava ripetere l’artista newyorchese. Neppure se affrontava temi delicati o controversi, come quando tratteggia una famigliola d’indiani navajo derelitti davanti alla grandiosa diga che spazza via quel che resta della loro povera esistenza o nel caso della bambina di colore scortata a scuola da quattro omaccioni bianchi, a simboleggiare l’apartheid ben vivo negli anni Sessanta, in The problem we all live with del 1964. E con quale orgoglio – lo stesso messo in mostra nel dipinto – la bambina di quel ritratto, al secolo Ruby Bridges, che nell’America patria delle libertà dovette essere scortata alla scuola pubblica dagli sceriffi federali tra insulti e minacce, poté, avanti con gli anni, rivedersi nel quadro appeso alla Casa Bianca, ospite di un presidente di colore. Miracoli e misteri di un’America che resta grande anche quando mostra le sue miserie.
Tutto questo, reclute e negrette, la brava gente dell’America profonda, zeppa di scheletri nell’armadio come una notte di Halloweeen ma dalle sorti magnifiche e progressive, giunge in Italia per una grandiosa mostra promossa dalla Fondazione Roma, dal titolo assai significativo: Cronaca americana. American chronicle, curata da Danilo Eccher (direttore della Gam di Torino) e da Stephanie Plunkett, direttrice curatoriale del Norman Rockwell museum di Stockbridge, nel Massachussets – ultima dimora dell’artista che contemporaneamente all’esposizione romana rende visibili l’immenso archivio fotografico delle immagini che rappresentano la base di partenza dei suoi meticolosi lavori e tele poco note, tra le ottocento conservate delle circa quattromila realizzate – racconta in oltre cento tra dipinti e foto l’artista che col suo talento ha illustrato la storia del sogno a stelle e strisce. Quel sogno che traspare dalle 321 copertine del Post, tutte presenti in mostra, che meglio d’ogni altra pubblicazione ne raccontano l’evolversi (anche da un punto di vista del gusto grafico), dal 1916 al 1963. Quando la cinquantennale collaborazione con la rivista cessa e uno dei suoi artisti di punta si dedica a temi meno frivoli e buonisti, impegnandosi sui diritti civili – o socialmente consapevoli, come si sarebbe detto – sulle pagine di Life o Look (per cui il caso Ruby venne illustrato). Restando per un decennio ancora, fino alla morte, capace di parlare alla mente oltre che al cuore della gente che ha potentemente contribuito a plasmare.
Rockwell, infatti, è un miracolo nel miracolo americano. Al punto che oggi, a centoventi anni dalla nascita e a un secolo buono dai suoi esordi quale art director di Boy’s life, la rivista ufficiale dei Boy Scout, una biografia edita negli Usa ne fa a pezzi l’immagine e il mito sottolineandone l’omosessualità – lui che ebbe tre mogli e vari figli – e le presunte tendenze pedofile. Di fatto nato come illustratore per l’infanzia, nei suoi dipinti straripanti fanciulli, questi assurgono all’ideale d’un paese giovane e votato al progresso, salvando con le loro smorfie e pose birbone il loro autore dalla caduta nella retorica e nel macchiettismo, sempre in agguato dati i temi trattati. Ne sono un esempio, al contrario, le quattro libertà borghesi decantate da Roosevelt a cui s’ispirò l’artista per i grandi pannelli che fecero il giro degli States per raccontare all’America profonda e ignava le ragioni per cui i suoi ragazzi avrebbero dovuto combattere in Asia e in Europa. Ma sbaglierebbe chi vedesse in Rockwell solo un grande artista capace di stupire con la normalità, amante dei bei tempi andati o della quotidianità fatta di piccole cose, un mero cantore della borghesia Usa che tanto apprezzava il suo “realismo fiabesco”, per dirla come il presidente della fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, che questa mostra al solito ben realizzata ha fortissimamente voluto e il Museo Rockwell di Stockbridge vorrebbe esportare in tour in qualche altro museo d’Europa.
Nelle pitture di Rockwell c’è altro dal tocco magico del talento: concetti, sia pure distantissimi dai concettualismi cui pure cercò di non sottrarsi, in una sua breve stagione d’arte moderna. E un concetto, su tutti, espresso alla perfezione in una delle prime tele esposte: l’Albero genealogico del ’59 – ultimato pochi giorni prima della morte della sua seconda moglie – dove tra le fronde grigioverdi campeggia un Bignami di storia e d’amor patrio. Pirati dei Caraibi e fanciulle in fiore, brutti ceffi e nobiluomini, sudisti e nordisti, squaw indiane e mormoni, ballerine di saloon e gente dabbene e timorata di Dio, fino al paffutello ragazzino che ricorda i tratti e gli avi irlandesi dell’autore. Tutti insieme in una sola, grande famiglia, a raccontare un paese comunque unito, dove chiunque si sente americano prima che altro, positivo e ottimista come nessun altro. Una cronaca certo farlocca che non si limita a raccontare la realtà, ma la parafrasa facendone mito. E assume perciò veste identitaria, al di là d’ogni barriera di classe o d’altro. Eccola, la grandezza dell’opera e del suo autore, di cui un paese come il nostro, ricco ormai quasi solo di storia, avrebbe tanto bisogno.
American chronicles: the art of Norman Rockwell, Roma, palazzo Sciarra, dall’11/11 all’8/2; www.mostrarockwellroma.it; www.nrm.org.
www.mauriziozuccari.net/it/parole-pietre