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Homeculture«Mi piacerebbe morire a Venezia, in una sera d’autunno»

«Mi piacerebbe morire a Venezia, in una sera d’autunno»

Così ebbe a dire Serge Moscovici dopo il suo viaggio in Italia nel 1947, anno in cui lasciò definitivamente la Romania alla volta di Parigi.

di Marialuisa Menegatto e Adriano Zamperini

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Serge Moscovici, psicologo sociale, filosofo della scienza, e principale teorico di ecologia politica, ci ha lasciati in una notte di autunno, tra sabato e domenica scorsi, spegnendosi in Francia all’età di 89 anni, dopo una vita da nomade in cui «nulla è stabilito se non l’andare errando» e in cui «il bisogno imperioso di un posto dove fermarsi» si alterna con la continua e incessante «necessità di partire».

Una vita nomade iniziata nel 1925 a Braila, piccola città della Romania, dove nacque da una famiglia ebrea, e ben presto fattasi difficile e precaria: il precoce divorzio dei genitori, l’abbandono della madre, il successivo affidamento a svariate figure genitoriali (nonni, zii, matrigne), la costante instabilità abitativa, furono tutti elementi che lo portarono a vivere legami familiari “non a norma”, fuori dagli schemi del tempo e spesso invisi ai più.

Un biasimo morale che non mancava neppure nei compagni di scuola e di gioco del piccolo Serge, che non perdevano occasione per vessarlo e isolarlo. Sebbene ostracizzato, oggi si direbbe vittima di bullismo, un giorno Serge trovò il modo di rivalersi facendo cadere inavvertitamente un calamaio pieno d’inchiostro sul bel vestito di uno dei suoi “persecutori”. Un primo gesto di rivolta avvenuto all’età di 7 anni, che ben sintetizza la cifra stilistica che accompagnò Moscovici per tutta la vita: un grande senso di giustizia. Un gesto che lo studioso sempre rievocò come esemplare e significativo di un suo atteggiamento: «A volte ci piacerebbe lasciar perdere, stare al gioco dei persecutori. Ma qualcosa dentro si oppone, si ribella e vuol battersi… Non vedo niente di male a essere un paria, ma non per questo accetto che un individuo o un gruppo sia disprezzato, escluso. È per questo che me ne ricordo: la condizione di paria non ha mai smesso di essere un tema al centro delle mie riflessioni e della mia opera».

Per il giovane Serge, gli anni che si rivelano cruciali furono quelli dal 1936 al 1947, anni in cui visse a Galati con l’amata zia paterna Anna, donna aperta e comprensiva, che permise al nipote di frequentare una scuola pubblica superiore, stringendo legami con persone di origini culturali diverse. Sono anni in cui nasce l’amicizia con Molkho, ragazzo ebreo e appassionato di scienza, che permette al nuovo amico l’accesso alla ricca biblioteca di famiglia e di coltivare la passione per la lettura; sono anni in cui nasce la prima passione politica grazie alla guerra antifascista in Spagna; ma sono anche gli anni della persecuzione nazista, dell’esclusione dalla scuola superiore a causa delle leggi antisemite.

Aiutato dal suo aspetto fisico, che lo faceva alto dalla pelle chiara e i capelli lisci, riuscì a sopravvivere ai sanguinosi attacchi alle comunità ebraiche, e nel 1941 scampò al pogrom. Esperienze che fecero nascere in lui la consapevolezza che le vicende drammatiche della storia determinavano il bene e il male, e con essi la vita e l’esistenza di molte persone. Dirà più tardi:

«La coscienza fino ad allora unita di me stesso come persona, e quella di noi come gruppo, fu scissa… Sentirsi discriminato non significa sentirsi umiliato o escluso, significa essere diviso in due. È tutto qui il male».

Per diversi anni dovette scontare i lavori forzati, e giurò a se stesso che se un giorno fosse riuscito a uscirne sarebbe diventato un «uomo di studio e di opere». E così fu.

A Parigi, la vita di Serge Moscovici divenne studio, ricerca e università. Una “borsa di studio per rifugiati” gli permise di proseguire le sue ricerche, arrivando a pubblicare nel 1961 l’opera La psicoanalisi, la sua immagine e il suo pubblico, che rappresenta uno dei punti di riferimento della psicologia sociale contemporanea, inaugurando una vastissima corrente di ricerche incentrata sulla teoria delle rappresentazioni sociali.

Diventa direttore didattico all’École des hautes études en sciences sociales e direttore del Laboratoire Européen de Psychologie Sociale alla Maison des Sciences de l’Homme. Insegna nelle università di Princeton, Stanford, New York, Ginevra, Cambridge, Lovanio.

Considerato una delle figure più importanti e innovative nell’ambito delle scienze sociali, si contraddistingue per un processo di rinnovamento, avviato dagli anni ’70, della psicologia sociale, in particolare quella europea, in contrapposizione alla psicologia sociale statunitense, eccessivamente «individualistica» e «decontestualizzata».

Profondamente segnato dalle persecuzioni e uccisioni di massa della Seconda Guerra Mondiale e della marginalizzazione di persone definite come “devianti”, Moscovici elabora un secondo grande contributo scientifico: la teoria dell’influenza minoritaria o delle minoranze attive. Così gli agenti minoritari e devianti diventano soggetti di cambiamento perché in un sistema sociale la relazione tra individuo e gruppo non è esaurita da un’unica direzione, ossia quella della sottomissione e dell’obbedienza, ma la relazione tra le parti è reciproca. Di fronte alla tendenza prevalente di una psicologia che studiava tale fenomeno in termini di conformità e sottomissione alla maggioranza, la posizione di Moscovici, riassunta nell’opera Psicologia delle minoranze attive (1976), evidenzia, viceversa, come chiunque, individuo o gruppo, sia in grado di agire un’influenza nei confronti della maggioranza a cui appartiene esercitando fermezza, tenacia, autonomia, indipendenza. Ossia dimostrando la capacità di mantenere ferma e costante la propria posizione nel tempo e nelle varie situazioni. Pertanto l’influenza non procede solo in un’unica direzione – dalla maggioranza alla minoranza – ma anche nel senso contrario, creando un mutuo processo di azione e reazione.

La storia ci offre innumerevoli esempi di minoranze attive che hanno raggiunto riconoscimenti sfidando la maggioranza; per esempio il movimento ecologista, i movimenti per l’emancipazione della donna e quelli per i diritti delle persone omosessuali.

Vanno inoltre menzionati altri suoi contributi, come la teoria delle decisioni collettive e del consenso sociale, quella sulla polarizzazione di gruppo, la psicologia delle folle, oltre a vari studi prodotti nell’ambito dell’antropologia sociale. Tra le sue numerose opere ricordiamo: Rappresentazioni sociali (1984) (con R.M. Farr), La fabbrica degli dei (1988), Dissensi e consensi (1991) (con W. Doise), La relazione con l’altro (1994).

La grande ricchezza e la profondità delle esperienze personali vissute, ricondotte all’infanzia, alla famiglia “diversa”, alle vicende socio-culturali e storiche come la guerra, le persecuzioni, l’esilio, hanno certamente contribuito a forgiare in Moscovici una personalità intellettuale straordinariamente forte, in cui convergono diversi apporti disciplinari accompagnati sempre dalla curiosità epistemica, mai imprigionata in nicchie predefinite e rassicuranti, e a lui va sicuramente il grande merito di aver “osato”, di aver esplorato nuove vie, con convinzione e coerenza. Per noi scriventi, psicologi sociali, solo per fare un piccolo esempio, è stato una guida imprescindibile nel progetto decennale di studi intorno alla violenza del G8 di Genova.

A tutti l’arduo compito di continuare il suo insegnamento.

*Marialuisa Menegatto, Università di Verona, Adriano Zamperini, Università di Padova

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