Giacone e Mandich in mostra a Roma. Era dai tempi di Parade, messo in scena da Picasso e Cocteau e musicato da Satie, che non si vedeva in scena un duo così promettente
di Maurizio Zuccari
De costruire: destrutturare, smontare, fare a pezzi. Ma anche arte del costruire, narrazione del fare. Semantica a parte, è questo il senso della mostra che ha aperto i battenti alla galleria Faber di Roma. Immersi quasi in un de bello di cesariana memoria, due sempreverdi della scuderia Porretta per la prima volta insieme, in un’esposizione davvero multimaterica. Valerio Giacone e Jacopo Mandich sono ormai noti agli aficionados della galleria e al pubblico romano, ma non per questo la doppia personale che li vede l’uno accanto e dentro l’altro nella loro galleria di riferimento con precedenti lavori singoli e inediti elaborati insieme ad hoc ha il sapore del già visto. Certo, la matericità con la quale entrambi si misurano è quella di sempre, l’impasto di legnacci e ferraglie corrose, roba d’accatto che nelle loro mani si rinnova e si plasma in una nuova etica del fare. Ma intanto c’è la novità di vederli assieme, ed è una bella scommessa e allo stesso tempo una tappa quasi obbligata per due artisti che per realizzare questo expò natalizio hanno lavorato al freddo e al gelo – manco scaldati dal bue e dall’asinello come nostro Signore – delle notti capitoline per una mostra a quattro mani e duplice curatela (accanto al patròn Cristian Porretta, Chiara Tricamo).
Tappa d’obbligo, si diceva. Diversamente non poteva essere, per due artisti che hanno più d’un punto di contatto e partono da premesse simili, sia pure con peculiarità e sensibilità diverse. Logico, dunque, che marciando nella stessa direzione un largo pezzo di strada possa farsi assieme. E il cammino sulla via della decostruzione porta la coppia a esiti a tratti incerti ma nel complesso molto interessanti, sul crinale d’una frontiera dove è facile che l’equilibro sbilenchi di qua o dilà, la mano e l’occhio dell’uno prevalgano sull’altro. Rischio, questo, sempre presente quando si lavora a due ma sostanzialmente evitato grazie a opere che risultano frutto di un equilibrio riuscito, anche se in sede espositiva il tratto giaconiano sembra a volte prevalere sulla materia mandiciana. Ma sono ombre di una scena vivida, inciampi in un cammino che si denota sicuro: la strada è questa e la luce è là, oltre il crinale, basta allungare il passo senza mettersi fretta. Bella la trovata dell’abero delle latte, riuscite in particolare le ferrotele (chiamiamole così le loro pittosculture) dove i toni rugginosi e pannosi evocano atmosfere di un altrove che potrebbe essere la ritirata di Russia o una novella apocalissi, tormente dell’animo riverse sulla matrice materica dove un fantasmatico spirito creatore, o novello Cristo, s’erge a contemplare quel che resta o sarà.
«L’origine delle creazioni – dichiarano i curatori – è la materia, distrutta, plasmata e ricostruita, resa viva e potente da un’incessante ricerca di rinnovamento interiore». Ogni fine presuppone un inizio, ogni incipit chiede il suo punto fermo per un nuovo giro di boa, nell’eterno fluire della materia. Ora, per tornare alla metafora cesariana, il dado è tratto e il gioco vale la scommessa di un comune possibile approdo. Con un pizzico d’enfasi, era dai tempi di Parade, messo in scena da Picasso e Cocteau e musicato da Satie, che non si vedeva in scena un duo così promettente. E come quel balletto voleva contrapporre la poetica della bellezza di fronte alla brutalità del mondo allora moderno, dominato dai cupi rimbombi della Grande guerra, questa collaborazione mostra la poetica del fare fronte al cupo brullore dell’oggi, in una capitale pervasa dalle mafie di sempre. Decostruzione come demolizione delle brutture, anche. De costruzione, Galleria d’arte Faber, Roma, fino al 18 gennaio; www.galleriadartefaber.com.
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