Anche il primo decreto legislativo sul Jobs Act è un enorme regalo ai padroni e un’ aggressione violenta contro i lavoratori. Le ambiguità di Cgil e sinistra Pd
di Franco Turigliatto
I provvedimenti varati alla vigilia di Natale dal Parlamento e dal governo (l’approvazione della legge di stabilità e il decreto legislativo n. 1 sul Jobs Acts) sono atti infami, espressione della guerra che i padroni conducono contro la classe lavoratrice per distruggere i suoi diritti e per stornare le risorse pubbliche a vantaggio dei profitti e delle rendite finanziarie. Il governo Renzi si conferma, per chi avesse avuto ancora qualche stupida incertezza, di essere un governo di classe, al servizio della classe capitalista, nemico dei lavoratori, della giustizia sociale; non il governo della modernità e del progresso, ma un governo reazionario dei “padroni delle ferriere” che punta a ricostruire il pieno potere della borghesia su una classe lavoratrice frammentata, divisa, impossibilitata a difendere i suoi interessi e quindi suddita.
La legge di stabilità è un enorme regalo deposto dal governo sotto l’albero della Confindustria: riduce drasticamente la tassazione (IRAP) alle imprese, utilizza gli undici miliardi di spesa aggiuntiva in deficit a totale vantaggio della classe padronale, taglia contemporaneamente la spesa pubblica (17 miliardi) con enormi ripercussioni, sulla sanità, sul trasporto pubblico locale, sui servizi sociali.
Ma anche il primo decreto legislativo sul Jobs Act, è un enorme regalo ai padroni e nello stesso tempo un aggressione vile e violenta contro le lavoratrici e i lavoratori.
La Camusso parla di “abominio” e sembra cadere dal pero quanto si chiede: “Ma perché Renzi ce l’ha così tanto con i lavoratori”. L’ex sindaco di Firenze è stato messo a quel posto dai poteri forti per fare questo lavoro sporco; al di là delle cortine fumogene e del diluvio di parole ingannevoli non ha mai nascosto questa sua funzione, né si poteva avere dubbi di cosa significasse la legge delega sul Jobs Act.
C’è da chiedersi se mai perché la CGIL abbia tardato così tanto ad organizzare lo sciopero generale del 12 dicembre e perché, dopo averlo realizzato con successo, invece di proseguire sullo slancio prodotto dalle tante mobilitazioni d’autunno dei lavoratori, dei precari e dei giovani, abbia rinunciato a un vero piano di lotte e alla riprogrammazione di un nuovo sciopero generale per dare un segnale inequivocabile al governo. Perché fare un direttivo CGIL che non decide nulla, pochi giorni prima della riunione annunciata del Consiglio dei Ministri, rinunciando a mettere pressione al governo e lasciandogli quindi maggiori possibilità di manovra per i suoi propositi infami?
Lo schema di decreto infatti va al di là degli stessi sogni del Presidente della Confindustria Squinzi, dando ai padroni non solo piena libertà sui licenziamenti individuali, ma anche libertà di scelta su quelli collettivi.
Alleva correttamente scrive sul Manifesto: “In cosa consiste, infatti, la «rivoluzione copernicana» di cui straparla Matteo Renzi a proposito dei contenuti del decreto attuativo? Puramente e semplicemente nel consentire al datore di lavoro che voglia per qualsiasi motivo (anche il più ignobile) sbarazzarsi di un lavoratore di «inventarsi» una inesistente ragione economico produttiva per procedere al licenziamento, e di farlo senza timore che il suo carattere pretestuoso venga smascherato in giudizio perché anche in tal caso gli basterebbe pagare la classica «multarella» (per ogni anno di servizio due mensilità con il massimo di 24) per lasciare comunque il lavoratore sulla strada nella condizione disperata discendente dalla disoccupazione di massa.
Tutto il resto del decreto attuativo, compresa la dibattuta questione della parziale della reintegra nel caso di licenziamenti disciplinari illegittimi, è soltanto fumo negli occhi, perché tutti i datori imboccheranno, invece, la comodissima strada del «falso» motivo economico produttivo.
Per parte sua la CGIL scrive: ”Con il decreto al posto delle tutele crescenti si passa alla monetizzazione crescente dei diritti, si cancella il lavoro a tempo indeterminato e si penalizzano i giovani rendondoli precari a tempo indeterminato” E aggiunge che le nuove misure danno “il via libera alle imprese a licenziare in maniera discrezionale lavoratori singoli e gruppi di lavoratori”. La Camusso promette nuove dure lotte…… vedremo…
Non meno condivisibile è l’appassionata denuncia che Alleva fa dell’opportunismo dei tecnici e dei tecnici politici del Parlamento, nonché della cosiddetta sinistra del PD; quest’ultima, con la scelta finale di votare la fiducia al governo si è resa responsabile dell’approvazione del Jobs Act quando al Senato avrebbe potuto affossare questo provvedimento antioperaio e antidemocratico.
Riprendiamo ancora in proposito un ampio passaggio dell’articolo di Alleva: “Il secondo insegnamento della vicenda ha riguardato il presentarsi, ancora una volta del classico «tradimento dei chierici» per tale intendendo i tecnici, i tecnici politici e i politici puri che avrebbero dovuto garantire i diritti fondamentali dei lavoratori assicurati dall’articolo 18 con la sua potente valenza anti ricattatoria. Da una parte, dunque, vi sono stati i tecnici politici che hanno lavorato intensamente alla formulazione della legge delega e dei decreti attuativi ma di essi non mette conto dire più di tanto: si tratta di un gruppetto di antichi transfughi del movimento sindacale che con l’accanimento tipico di chi «è passato dall’altra parte» opera ormai da decenni — certo non gratuitamente — per la sistematica demolizione di ogni tutela dei lavoratori. Ma dall’altra parte purtroppo vi sono stati politici ossia i parlamentari della cosiddetta «sinistra del Pd», a parole del tutto contrari al Jobs act, ma che nel concreto hanno collaborato in modo assolutamente decisivo alla sua emanazione, e lo hanno fatto con piena consapevolezza. Prima vi è stato il «salvagente» offerto al governo dal presidente della Commissione lavoro della Camera e consistito nell’apparente miglioramento, con alcune precisazioni, del progetto di delega che era «in bianco»: il vero scopo è stato quindi quello di salvare il progetto di delega cercando di renderlo compatibile con l’articolo 76 Cost. e di questo abbiamo detto sulle colonne del manifesto. Poi vi è stato, in data 3 dicembre 2014, l’episodio deprimente e squallido che mai potrà essere dimenticato. Sembrava che il destino avesse voluto preparare un momento della verità: il testo del Jobs Act modificato alla Camera per salvarlo dall’incostituzionalità era conseguentemente tornato al Senato, dove però la maggioranza del governo era assai più sottile. E al Senato vi erano 27 senatori del Pd che si erano dichiarati contrari all’eliminazione dell’articolo 18 ma che poi, al momento di decidere, hanno invece approvato il testo legislativo giustificandosi con il classico documento «salva-anima» sulla necessità di non provocare crisi di governo. Ebbene, il risultato della votazione li inchioda per sempre alla loro responsabilità: vi sono stati 166 voti favorevoli, 112 contrati e un astenuto. Se i 27 «amici» dei lavoratori e dei loro diritti avessero coerentemente votato contro il progetto il risultato sarebbe stato di 139 favorevoli, 139 contrari e un astenuto e poiché l’astensione al Senato conta voto negativo il Jobs Act sarebbe andato in soffitta una volta per tutte! Il colmo dell’ipocrisia i 27 senatori lo hanno poi raggiunto nella chiusura di quel documento di giustificazione promettendo massima vigilanza in sede di formulazione dei decreti attuativi: enunciazione ridicola, visto che come tutti sanno, i decreti attuativi il legislatore delegato «se li fa da solo» senza il concorso del Parlamento.”
Di Alleva condividiamo invece molto meno la scelta politica di giocare nella prossima fase tutte le carte sul terreno istituzionale, cioè sulla costruzione di un referendum abrogativo del decreto attuativo del Jobs Act. E’ una strada che non può mai essere esclusa, e che non escludiamo, ma è una strada lunga che ha lo svantaggio di rinviare ad altri tempi una partita che può e deve essere giocata ancora oggi. Inoltre non sappiamo come saranno quegli “altri tempi”, anche perché Renzi e soci non smetteranno nel frattempo di fare danni e bisogna provare a fermarli subito. Infatti la discussione che subito si è aperta sulla estensione delle norme del Jobs Act anche al pubblico impiego non lascia dubbi della direzione di marcia dell’esecutivo e dei padroni.
Noi pensiamo che lo scontro duro vada subito riaperto, che la partita vada giocata sul terreno della lotta, sul terreno sociale della mobilitazione già nelle prossime settimane. Il governo e il parlamento vanno messi sotto assedio. E’ vero che Camera e Senato per quanto riguarda il decreto legislativo hanno solo più una funzione consultiva, e che il governo potrebbe emanarlo definitivamente anche non rispettando un eventuale giudizio negativo del Parlamento.
Ma perché non provare a costruire un gennaio di mobilitazione, che veda assemblee nei luoghi di lavoro, pronunciamenti, mobilitazioni di categorie e la convocazione a breve scadenza di un nuovo sciopero generale, eventualmente anche prolungato? Tutto questo servirebbe a rendere sempre meno credibile il governo, ad indebolirlo, ad ostacolare la sua azione; nello stesso tempo si potrebbe mettere con le spalle al muro la cosiddetta sinistra del PD, spingendola (non importa quanto di controvoglia) a votare insieme a Sel e al M5Stelle con possibilità di bocciare il decreto governativo al Senato e di smascherare in ogni caso anche l’ignobile alleanza che esiste tra tutte le forze della destra e il PD al di là delle loro polemiche fasulle, sceneggiate rivolte ad ingannare i loro elettori sulla realtà delle loro azioni e dei loro accordi di fondo.
Un’azione di questo genere e un movimento di questa ampiezza creerebbe un altro clima politico e sociale, una situazione obbiettivamente di crisi del governo, la possibilità di cacciare il governo della troika e dei padroni. Ma è proprio questo lo scenario che va conquistato, la ripresa delle mobilitazioni di classe, che renderebbe poi possibile e vittorioso, se necessario, un eventuale referendum. Ora però la parola deve essere data alla lotta sociale.
leggi anche su anticapitalista.org
renzi, jobs act, lavoratori, lavoro, diritti, pd, sinistra, alleva, manifesto, governo, pd, cgil, camusso, lotta, violenza, costituzione, confindustria, autunno, lotte, sciopero generale