Con un referendum abrogativo sembra che non sia possibile. Uscire dall’euro è possibile solo lasciando l’Unione Europea. Lo scrive un costituzionalista
di Enzo Di Salvatore*
Si può uscire dall’Euro? A questa domanda si possono dare due risposte: una politica e una giuridica. La risposta politica riguarda l’opportunità dell’uscita dall’Euro da parte di uno Stato membro dell’Unione europea; la risposta giuridica concerne la legittimità di una scelta di questo tipo e – ammesso che sia possibile – il modo in cui possa avvenire. Considero anzitutto l’ipotesi avanzata da alcune forze politiche, e cioè che debbano essere i cittadini a scegliere. In questa prospettiva, la questione andrebbe posta nei seguenti termini: l’Italia è parte dell’Unione Economica e Monetaria (UEM) e, dunque, membro della zona Euro. L’UEM è stata istituita con il Trattato di Maastricht del 1992 ed è stata realizzata attraverso tre fasi, che hanno progressivamente portato alla nascita dell’Euro. Al Trattato di Maastricht – con il quale è nata l’Unione europea – l’Italia ha dato esecuzione con legge. La prima domanda è: si può celebrare un referendum abrogativo sulla legge di esecuzione di quel Trattato? La risposta è no. No perché lo impedisce l’art. 75 della Costituzione, rispetto al quale resta ferma l’interpretazione data dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 16 del 1978. La seconda domanda è: si può celebrare un referendum consultivo sull’Euro? La risposta è sì, ma nel modo che segue. L’art. 1 dichiara che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ciò vuol dire che, sul piano costituzionale, le forme di espressione della democrazia sono solo quelle giuridicamente previste. Questo non toglie che si possa esprimere il proprio punto di vista su qualcosa, Euro compreso. Ma questa evenienza rientrerebbe nella libera manifestazione del proprio pensiero, come tale garantita dall’art. 21 della Costituzione. In questo modo, non si farebbe ricorso ad uno strumento di democrazia: si tratterebbe di una sorta di sondaggio.
Ora, le forme di esercizio diretto della sovranità popolare sono di vario tipo e trovano espressione attraverso l’iniziativa legislativa popolare, il referendum abrogativo, il referendum confermativo collegato al procedimento di revisione costituzionale, il referendum consultivo sulla istituzione di nuovi comuni. Insomma, la Costituzione specifica in quali casi sia possibile ricorrere agli istituti di democrazia. E – in ragione del tenore letterale dell’art. 1 della Costituzione – non si potrebbe argomentare che “ciò che non è espressamente vietato è consentito”. Quindi, perché il referendum consultivo sull’Euro possa legittimamente tenersi non residuerebbero che due strade: modificare la Carta costituzionale oppure adottare una legge costituzionale che lo preveda espressamente. La prima strada è quella che si sta imboccando con la riforma costituzionale in itinere: il nuovo art. 71 della Costituzione prevede che “al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione”. La seconda strada è quella che si è percorsa nel 1989 quando si è indetto un referendum, volto a conoscere l’orientamento del popolo italiano sul futuro del processo di integrazione. La legge costituzionale n. 2/1989 non disciplinava, tuttavia, gli effetti di tale referendum: nei fatti, si è avuta una mera consultazione del corpo elettorale, con effetti ulteriori inesistenti.
Ma poniamoci un’altra domanda: qualora la legge costituzionale di indizione del referendum stabilisse che gli organi statali debbano dare seguito all’esito referendario, cosa potrebbe fare concretamente lo Stato? Potrebbe decidere di uscire unilateralmente dall’Euro, dichiarando in sede europea di essere vincolato a ciò da un mandato popolare? La risposta è no. No perché il diritto europeo non considera l’eventualità che uno Stato membro della zona Euro possa uscirne. Vero è che l’Unione europea distingue tra Stati membri della zona euro e Stati membri con deroga; ma questa distinzione è tracciata, appunto, dal diritto europeo, non dal diritto nazionale. E mentre si può sempre entrare nell’Euro (a patto che si rispettino i criteri di convergenza fissati a Maastricht), non si può giuridicamente uscirne una volta entrati. D’altronde, l’art. 139 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione (TFUE), nella parte in cui prevede che “Gli Stati membri riguardo ai quali il Consiglio non ha deciso che soddisfano le condizioni necessarie per l’adozione dell’euro sono in appresso denominati «Stati membri con deroga»”, chiarisce che l’uscita dall’Euro non possa essere decisa neppure dall’Unione, in quanto questa previsione si riferirebbe solo agli Stati membri dell’Unione che non siano ancora entrati nell’Euro. Per quanto ciò sia ipotetico, e a prescindere dagli effetti che si avrebbero, lo Stato membro che volesse uscire dall’Euro avrebbe tre possibilità: 1) violare i Trattati; 2) chiedere una revisione dei Trattati (e ottenere lo status di Stato con deroga); 3) recedere dall’Unione.
1) Il Governo italiano ha sottoscritto i Trattati europei: il TUE, il TFUE, il Fiscal Compact e il Trattato MES. Il Parlamento ha dato esecuzione a tali Trattati con legge. Le relative leggi di esecuzione non potrebbero essere abrogate con referendum, ma potrebbero – del tutto ipoteticamente – essere abrogate con legge del Parlamento. Se questo accadesse, ciò non farebbe venire meno la responsabilità dello Stato italiano dinanzi all’Unione per aver violato gli obblighi. E l’Unione europea potrebbe senz’altro reagire a tale violazione.
2) La revisione dei Trattati sarebbe sempre possibile. Solo che, nonostante l’art. 48 TUE sia ora modificato, la procedura di revisione ordinaria (che è ipotesi diversa da quella semplificata) continua a richiedere il consenso di tutti gli Stati membri, posto che “le modifiche entrano in vigore dopo essere state ratificate da tutti gli Stati membri” (art. 48, § 4, TUE). Questo renderebbe non impossibile, ma difficilmente praticabile l’uscita dell’Italia dall’UEM.
3) Per poter recedere dall’UEM occorre recedere dall’Unione. E questo – per quanto il discorso continui ad essere del tutto ipotetico – sarebbe giuridicamente sempre possibile, visto che tale evenienza è disciplinata dall’art. 50 TUE, dove, tra l’altro, si prevede che, in ogni tempo, lo Stato che sia uscito dall’Unione europea possa chiedere di esservi riammesso, secondo la procedura indicata all’art. 49 TUE. È in quella sede che l’Italia potrebbe allora “contrattare” le condizioni della sua riammissione all’Unione e porre in discussione la sua partecipazione alla zona Euro.
*docente di Diritto costituzionale all’Università di Teramo
Ma si può fare la rivoluzione? A questa domanda si possono dare due risposte: una politica e l’altra giuridica …
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