La crisi è stata l’occasione per una rivincita del capitale, mascherata da “riforme strutturali”. La vittoria di Syriza riapre una partita che sembrava chiusa
di Luigi Pandolfi
Non sappiamo ciò che produrranno nel concreto i negoziati in corso tra Atene e Bruxelles, ma c’è già un dato su cui vale la pena riflettere: la vittoria di Syriza in Grecia ha riaperto una partita che sembrava fino a qualche mese fa irrimediabilmente chiusa. Parliamo di una questione che, a dirla tutta, trascende gli stessi interessi contingenti del popolo greco. Certo, il modo in cui si concluderà la trattativa sul debito sarà decisivo per il futuro prossimo di un paese allo stremo, alle prese – non è mai inutile ribadirlo – con una crisi umanitaria che solo tra le rovine di una guerra potrebbe rivelare plausibilmente, oserei dire “razionalmente”, quei segni, ma in questa vicenda c’è di più, molto di più. C’è il ritorno in campo della politica, di quella politica che nella sua dimensione moderna ha significato sfidare la corrente, lotta e compromesso tra libertà e necessità, rifiuto dell’idea di ineluttabilità del corso storico, “assalto al cielo” nelle sue varianti più utopiche. Politica contro il tentativo, sempre ricorrente, di “oggettivazione” di dinamiche economiche ed assetti di potere storicamente determinati, e per questo del tutto relativi e modificabili.
Sulla crisi che ancora ci attanaglia sappiamo quasi tutto. Che essa è stata innescata dalle spericolate, irresponsabili, acrobazie della finanza internazionale, dal collasso del sistema bancario transatlantico dopo anni ed anni di gioco al rialzo sul versante del credito e dell’ingegnerizzazione della sua filiera. Creazione abnorme di denaro dal nulla, cartolarizzazioni, derivati, modelli matematici e statistici a sostegno di avventure speculative irrefrenabili: per oltre un ventennio la finanza creativa è stata la vera cifra del capitalismo. Sublimazione della potenza del denaro, poi il crack. Ma per un po’ ci avevano davvero convinti che la causa del disastro eravamo noi cittadini, che avevamo vissuto “al di sopra delle nostre possibilità”. Da qui a comminare “punizioni” esemplari per i popoli “spreconi” il passo è stato breve. La crisi cambia nome, e significato: non più crisi finanziaria e bancaria ma “crisi dei debiti sovrani”. Il danno e la beffa. I debiti pubblici nei paesi europei esplodono per via dei salvataggi bancari, ma il conto viene portato ai cittadini. La parola “risanamento” diventa dappertutto sinonimo di attacco smisurato ai diritti dei ceti più deboli, di tagli draconiani alla spesa sociale, di smantellamento paranoico del welfare, di esautoramento dei parlamenti e dei governi nazionali nelle loro prerogative di politica economica e fiscale. Di più: la crisi diventa l’occasione per una rivincita di classe del capitale, mascherata da espressioni neutre e politicamente accettabili come “riforme strutturali” o “maggiore flessibilità”.
Dal governo diretto della Troika, come nel caso greco, alla finta indipendenza di governi come quello italiano, il filo conduttore è in ogni caso la fine della politica e della sovranità popolare, ovunque. La nuova governance europea è concepita per ridurre al minimo il margine di manovra dei governi nazionali in materia di bilancio. Di fatto è la fine della democrazia. Si arriva al paradosso che in Europa l’unico potere “politico” indipendente e sovrano, al quale le classi politiche nazionali affidano le proprie preghiere per la risoluzione dei problemi economici, oggi è la Banca Centrale Europea. Un’istituzione che sfugge a qualsivoglia controllo democratico, da cui, nondimeno, dipende interamente la politica monetaria in zona Euro. E la politica monetaria, com’è noto, è uno strumento di politica economica, a tutti gli effetti.
In questo quadro la vittoria di Syriza in Grecia ha già assunto un significato politico epocale. Forti del grande consenso popolare di cui godono in patria, e del sostegno di decine di piazze in tutta Europa, Alexis Tsipras ed il suo governo hanno infilato un cuneo nel sistema: il cuneo della politica nel sistema anchilosato di un’Europa socialmente alla deriva. Politica, popolo, partecipazione, democrazia da un lato, finanza e governi ad essa asserviti dall’altro. Non è soltanto una questione greca, evidentemente. Possiamo tranquillamente affermare che la Grecia, da laboratorio dell’austerity più dura ed immorale, è diventata la colonna avanzata del cambiamento che s’avanza in tutta Europa.
L’Europa di Maastricht nasceva all’indomani della caduta del Muro di Berlino e della fine dell’Unione Sovietica. Non c’è dubbio, al netto del giudizio sulla qualità dei modelli socio-economici e statuali che si imposero nei paesi dell’ex blocco socialista, che ad influenzare l’opera di costruzione dell’Europa unita fu anche il clima di euforia tra le élite dominanti per la sconfitta del comunismo. Quest’ultimo era stato il tentativo più poderoso, per certi versi titanico, di sfidare le leggi della storia che mai l’uomo avesse conosciuto. Il suo fallimento autorizzò alcuni intellettuali a parlare addirittura di “fine della storia”. Nel concreto spianò la strada a quell’ideologia neoliberista che finirà per travolgere l’intero Novecento e le sue conquiste. Non ne restò immune l’Unione europea, che dalla crisi ha ricavato in seguito nuovi spunti, motivazioni, forza, per spingere ancora più avanti il processo di riorganizzazione in senso autoritario delle istituzioni, di svuotamento della democrazia, di assoggettamento del potere politico agli interessi del capitale e delle lobby finanziarie.
E’ la storia di questi ultimi anni, nella quale però sembra che adesso si sia aperta una crepa. La politica, come un fiume carsico, scavando, sta a poco a poco riguadagnando la superficie. Le piazze europee a sostegno del governo di Syriza in Grecia dimostrano che un ciclo si è chiuso, che un cambiamento di paradigma in Europa oggi è davvero possibile.