Quella volta che Stefano Borgonovo beffò l’Inter di Trapattoni. 4-3 per la Fiorentina. Disse di sé: «Forse non sono mai cresciuto fino in fondo. Niente male»
di Carlo Perigli
Si dice spesso che ogni partita ha una storia a sè. Ce ne sono poi alcune, che in soli 90 minuti riescono a raccontarne una serie infinita, altre ancora che dipingono nei minimi particolari l’essenza di un giocatore, che fuoriescono dalla narrazione collettiva per diventare un’esperienza intima, personale, che va raccontata in punta di piedi, quasi come a non voler disturbare, ma che diventa il modo migliore in cui un appassionato di calcio può rendere il giusto tributo ad un attaccante, ad un uomo, che una terribile malattia ha strappato prematuramente a questo mondo. Così, quel Fiorentina-Inter del 12 febbraio 1989 esce dagli almanacchi e diventa lo sfondo sul quale raccontare la storia di Stefano Borgonovo, attaccante lesto ed opportunista, con una spiccata ossessione per la porta avversaria.
Come ogni storia che si rispetti, anche in questa l’antagonista è di un livello superiore. Di fronte alla Fiorentina c’è l’Inter del Trap, l’Inter dei tedeschi, dei record, una squadra che in quella stagione annichilì il campionato conquistando 58 punti sui 68 disponibili. Gliel’aveva detto il Trap, in quel pomeriggio di metà anni settanta, “da adesso in poi non ti perderò più di vista, ti seguirò per sempre”. Un provino col Milan, l’inizio di una nuova vita, “con il calcio come unico comandamento. Mani giunte e pallone ai piedi”. E ora il grande vecchio era là, in piedi davanti alla panchina avversaria, a dirigere a suon di fischi l’orchestra nerazzurra, in vantaggio per 3-2 sui viola.
E Borgonovo? È sempre lì, nella metà campo interista, a contendersi il pallone con i difensori avversari, a lottare per saziare la sua voglia di goal. Come all’oratorio di Giussano, quando era Johan Cruyff, ora in ogni stadio d’Italia, perché lui è Stefano Borgonovo, “un attaccante scappato dal calcio balilla”, nato per segnare. Settantaduesimo minuto, destro di Cucchi dal lato corto dell’area, Borgonovo anticipa tutti e corregge il pallone in rete. Veloce, rapido, indolore, 3-3 e partita che ormai sembra volgere alla conclusione, con le squadre ormai stremate da quasi novanta minuti di fuoco. Ma se i muscoli conoscono la stanchezza, l’ossessione per il gol non conosce limite, e Borgonovo fin da piccolo la seguiva in maniera spedita, “purchè alla fine del cammino ci fosse una porta con dentro un portiere. Mi avevano programmato per arrivare esattamente lì”.
Cinque minuti alla fine, punizione per l’Inter all’interno della propria area. Da Verdelli a Bergomi, da Bergomi a Zenga, anzi no. Il pallone all’Uomo Ragno non arriva, perché appena il numero 2 dell’Inter lo tocca indietro, Borgonovo sbuca alle sue spalle, soffia la sfera al portiere e la deposita in rete. “Ho visto Verdelli che calciava una punizione verso Bergomi, mi sono volutamente nascosto dietro a Ferri, Bergomi non mi ha visto ed ha appoggiato verso Zenga. Errore fatale, le intuizioni sono il mio forte”. Quattro a tre, partita finita, per l’Inter un piccolissimo passo falso, per la Fiorentina un successo epico, per Borgonovo un regalo ai suoi tifosi, il secondo, dopo quel gol al 90’ che sancì la vittoria contro gli eterni rivali della Juventus. C’è poi quell’altra storia, lontana quasi un ventennio da quel giorno, che segna una delle pagine più nere del mondo dello sport, che solo a ricordarla viene il magone. E ci scuserete se questa volta non la raccontiamo, anche se le cose da dire sarebbero tante. Almeno in questo articolo, vogliamo lasciare Borgonovo ancora nell’area avversaria, pronto a sfruttare la minima ingenuità difensiva, per poi correre verso la sua curva. “Ho giocato nel Como, nella Sambenedettese, nel Milan, nella Fiorentina, nel Pescara, nell’Udinese, nel Brescia, e forse non sono mai cresciuto fino in fondo. Niente male”.